Un bel due di picche a Rubbia

Tre decenni fa, negli anni che precedettero il tragico incidente di Chernobyl, l’allora nutrito gruppo dei nuclearisti avvampò d’entusiasmo per l’FBR (Fast Breeder Reactor), “Reattore Veloce Autofertilizzante”. Trattavasi di una versione evoluta dell’ormai consolidato termonucleare a neutroni lenti, (detti anche “termici”), del quale erano in attività, già in tutto il mondo, centinaia di esemplari e presentava l’affascinante novità di autoalimentarsi. Produceva, cioè, nuovi nuclei fissili, in quantità superiori a quelli consumati. Un primo prototipo venne avviato all’estremo nord della Gran Bretagna, ma fu il SuperPhoenix francese, fatto sorgere sulle rive del Rodano a Creys-Malville, cento chilometri oltre il confine italiano, a rappresentare il “gioiello europeo” di quella nuova ubriacante avventura, cui anche l’ Enel significativamente partecipò. Nel giro di qualche anno, tuttavia, pur filtrata dagli addetti alle pubbliche relazioni, cominciò ad emergere una lunga serie di preoccupanti problematiche. - Il principale isotopo fissile, prodotto dalla “fertilizzazione”, era il Plutonio, un transuranico di elevatissima radiotossicità, di semivita superiore a ventimila anni e, soprattutto, adattissimo alla fabbricazione di ordigni bellici (la bomba atomica di Nagasaki era al Plutonio). Il suo isolamento dagli altri materiali esausti, doveva essere effettuato in un impianto separato che, pur realizzato all’interno della struttura, presentava non poche complicanze procedurali, di movimentazione e di stoccaggio. - Il reattore era raffreddato a sodio liquido. Il fluido, altamente corrosivo ed esplosivo per semplice esposizione all’aria, doveva circolare, in condotte rigorosamente sigillate, a temperature superiori al suo punto di fusione ( 97°C). Molto più rischioso risultava, inoltre, il suo trattamento decontaminante, al confronto con quello, già difficile, per l’acqua, comunemente impiegata come refrigerante nei tradizionali reattori a fissione.- I neutroni ad alta energia indebolivano le strutture in tempi molto brevi, richiedendo, perciò accurati, improrogabili ed onerosi programmi di manutenzione e ricambio.- Le scorie prodotte avevano tempi di esaurimento inferiori a quelli dei reattori a neutroni termici, ma comunque esprimibili in termini di decine di secoli.L’euforia dei “breeders”, costruiti in pochi altri esemplari negli Usa, Germania ed anche Giappone, conobbe rapidamente il tramonto ed il costosissimo SuperPhoenix fu definitivamente abbandonato nel 1997. All’indomani della tragedia di Fukuscima, non ancora pienamente valutata nella sua reale gravità e sulle cui conseguenze i conteggi sono ampiamente parziali, Angela Merkel ha ordinato una revisione di tutti i reattori funzionanti in Germania ed il governo italiano ha accolto l’invito di una pausa di riflessione, rinviando di un anno qualsiasi decisione sull’avvento di una nuova stagione nucleare nel nostro Paese. Ho già avuto modo, nel recente, di ribadire le ragioni che mi hanno condotto prima e mi mantengono ancora adesso nel campo degli oppositori ad un tale sciagurato progetto, ma per estrazione culturale e per innata curiosità lontanissime dai pregiudizi ideologici, ritengo ora opportuno prestare orecchio all’ argomento riproposto dal prof. Carlo Rubbia, premio Nobel per la fisica nel 1984, riguardante il termonucleare basato sul Torio. Il Torio è un elemento radioattivo la cui giacenza in natura è stimata dieci volte superiore a quella dell’Uranio. Pur non essendo fissile, si può, con un metodo, molto meno rischioso ma assimilabile a quello dei “breeders”, trasformare in Uranio 233, in grado di dar luogo a reazioni a catena del tutto sovrapponibili a quelle utilizzate nei comuni reattori ad Uranio arricchito. Con un chilogrammo di Torio, dice sempre il professore, si produce la medesima quantità di energia ottenibile da duecento chilogrammi di Uranio. Il moltiplicatore composito in favore del Torio, tenuto conto della giacenza prima riportata, è perciò economicamente pari a duemila. La filiera Torio-Uranio 233, non produce Plutonio e non presenta, per questo, pericoli di “devianze militari”. Le scorie emergenti dalla trasformazione hanno radioattività che si riduce ai livelli dell’Uranio naturale in meno di un secolo, mentre le attuali richiedono un milione di anni. Il Torio, infine, potrebbe essere utilizzato nei reattori esistenti senza particolari, ulteriori, specifiche ricerche, proponendosi come opzione adatta ad affiancare le fonti rinnovabili in quel mix energetico da più parti invocato per traghettare il genere umano in un futuro più pulito, giusto e democratico. Le argomentazioni a sostegno di tale tecnologia non provengono da multinazionali affamate di profitti, né, con tutto il rispetto, dal garzone del fornaio. Per tale motivo, dovrebbero almeno essere esaminate ed approfondite con riguardo ed attenzione. Al prof. Rubbia è già stato dato “un bel due di picche” in occasione delle sue proposte sul solare termico. Potrebbe, stavolta, valer la pena di starlo a sentire o dobbiamo confermare la validità del detto latino, “Nemo profeta in patria”?

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