Non mi sono mai piaciuti quei programmi televisivi che, pur di raggiungere un alto “audience share” non si fanno scrupolo di spettacolarizzare il dolore, il disagio, la tragedia.L’atroce trauma di un bambino, conteso tra due che hanno smesso d’amarsi, rimane per ore e giorni sui telegiornali e sui più seguiti “talk show”, con gli immancabili interventi, parecchi a sproposito, di psicologi, sociologi, teologi, avvocati, giornalisti, educatori, legislatori, sovrapposti a quelli di parenti, amici, condomini o, solo, conoscenti. Tutti insieme, conduttore compreso, si azzuffano, schierandosi per l’una o per l’altra parte.Un giovane uomo, condannato a morte dalla SLA, viene ripetutamente inquadrato da mille angolazioni per mostrare impietosamente il corpo rattrappito dalla malattia e il volto deturpato da spasmi e sondini. I congiunti raccontano e si raccontano e se qualcuno di loro si commuove, la telecamera indugia su quegli occhi umidi in primissimo piano, aspettando, ansiosa, la comparsa delle lacrime.Lo strazio di un genitore la cui sfortunata figliola è andata in coma irreversibile, viene offerto ai telespettatori quasi come un’esibizione circense. Si discute si duella, si cavilla sui doveri, sui diritti, sulle terapie, sui sacramenti, sul divino e sul diabolico, violando indecorosamente i più intimi anfratti dell’anima, spingendosi ben oltre i limiti del buon gusto e della privacy.Sere fa, aspettando con il classico “zapping” (chi legge coglierà l’acida ironia nell’utilizzo di questi neologismi del linguaggio televisivo) l’ora tarda cui era stata relegata la messa in onda di un servizio per me interessante, casco dentro l’ennesima, disgraziata vicenda, suppongo, in buona parte, costruita. Rimango, tuttavia, sintonizzato più che altro perchè riconosco la mano di un autore che ho sempre considerato tra i più abili e preparati. E’ un percorso dai temi antichi o, acutamente, attuali. Una madre, forse appena quarantenne ma con il viso segnato da quotidiane traversie, ripete al pubblico il suo dramma: la dimora rurale ipotecata; cinque figli, partoriti in rapida sequenza, che si accapigliano per un’unica sgangherata bicicletta; un marito che, avendo perso il precario lavoro senza mai maturare i diritti minimi, esce di casa ad ore antelucane per racimolare, con il tacito consenso dei vicini, un mazzo di rapanelli, un piede di lattuga o, con l’aiuto della pioggia, un cestino di lumache da vendere al mercatino del lontano paese. Al rientro il poveraccio viene investito da sgarberie e contumelie che la moglie, esasperata dall’indigenza, gli scaraventa addosso senza ritegno, poiché il ricavato del suo misero commercio raramente supera i venti euro, insufficienti per le giornaliere necessità (il pane, la pasta, un sacchetto di patate, mezzo chilo di sgombri). La donna piange e chiede perdono allo sposo che, persa qualsiasi forma di autostima, sopporta in rassegnato mutismo quei maltrattamenti e, sentendosi in colpa, rifiuta di sedersi a tavola con i familiari per il desinare. L’incontro, organizzato tra i coniugi, è artificiosamente patetico ma, al di là della finzione goffamente interpretata, rivela sprazzi di autenticità.Nel palese intento di catturare l’approvazione dei telespettatori, arrivano mountain bikes, giochi elettronici, borse, zainetti e libri per i ragazzi, ma arriva, anche, un finale inatteso e molto ben congegnato. Al posto del classico assegno più o meno generoso, all’uomo vien fatto dono di un motociclo triruote, versione moderna del glorioso “Ape 50”, con il ripiano carico di sementi e fertilizzanti, insieme alla concessione di un terreno demaniale su cui impiantare un orto.Mi ritrovo ad incrementare di parecchi punti la stima verso l’ideatore della “piece”, non per la storia in sé, ma per l’importantissimo messaggio socio-politico lanciato, che mi permetto di girare, accompagnandolo con qualche personale riflessione, a tutti coloro che affrontano gli intricatissimi temi sulla crisi, a volte divagando e teorizzando, non di rado promuovendo se stessi.E’ ineludibile, a mio modo di vedere, una radicale rivisitazione del Welfare e dintorni.Giusto soccorrere chi si ritrova da un giorno all’altro fuori dal circuito lavorativo.Qualsiasi attività in favore dei più sfortunati deve, però, tenere in massima considerazione il principio che al disoccupato bisogna offrire aiuto immediato per sfamarsi, ma anche prospettiva e speranza. L’ozio, prolungato e assistito, impigrisce, deprime, umilia, induce fenomeni delinquenziali e impoverisce Il lavoro restituisce ottimismo, motivazione, dignità e genera ricchezza.Per cogliere un così illuminante risultato, non ripeterò ai potenti, ai politici, ai governanti, ai sindacalisti e agli imprenditori concetti già in più occasioni espressi da chi ne sa più di me, sui percorsi, sulle opportunità e sulle iniziative per riavviare il volano dello sviluppo.A banche e banchieri, invece, rivolgo una ferma, nient’affatto inedita, raccomandazione. Rimessa ancora al centro dei comuni interessi un’economia basata sulla sana, moderna, tangibile produzione e non sulla speculazione e sui debiti, trovino il modo di finanziare (utilizzando i soldi ricevuti per raddrizzare i loro bilanci) chi ha voglia di mettere in “moto” un qualsiasi, intelligente, nuovo “Ape 50”, rimodulando la filosofia del credito, finalmente liberandolo dai decrepiti schemi esclusivamente votati al profitto.Farneticazioni di un folle? Forse per rinsavire bisogna prima diventare... pazzi !
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