Un alunno non è mai un deficiente

Chissà se i giudici della Suprema Corte di Cassazione si sono ispirati alla massima di Giovenale tanto lontana nel tempo quanto tremendamente attuale nel ricordare quel «Maxima debetur puero revenrentia», ovvero «al fanciullo va dato il massimo rispetto». Quel rispetto che un’insegnante non ha dato al suo allievo al punto da essere stata condannata a trenta giorni di carcere, ridotti a quindici. I fatti risalgono a qualche anno addietro, ma il processo si è concluso definitivamente solo da pochi giorni. Per capire il perché di tanto rigore bisogna ripercorrere sinteticamente il fattaccio. In una scuola media di Palermo una docente stanca del comportamento da bullo di un suo alunno, lo costringe a scrivere sul quaderno per ben cento volte «sono un deficiente» (peggio di Zenone che costrinse un suo allievo a sedersi per terra, costringendolo a insudiciare il chitone fresco di bucato). A scatenare la punizione pare essere stata l’ennesima lite tra ragazzi che ha visto il solito borioso, già sorvegliato speciale, impedire a un suo compagno di entrare in bagno dei maschi perché ritenuto offensivamente una femminuccia. Un atteggiamento prepotente considerato «derisorio ed emarginante nei confronti di un compagno di classe» così come si legge nella motivazione della docente, ma che questa volta viene punito con una smodata punizione. La faccenda, ovviamente, non va giù ai genitori. Inizia un iter legale che si trascina nel tempo con l’assoluzione della docente in primo grado, sentenza annullata in appello e ora è arrivata la decisione dei giudici di Cassazione. La prof.ssa Giuseppa V. viene ritenuta colpevole «di aver abusato dei mezzi di correzione e di disciplina, di aver mortificato nella sua dignità l’alunno e di essere venuta meno al processo educativo in cui è coinvolto un bambino». Risultato: carcere sia pure per pochi giorni. Se da una parte si chiude una vicenda processuale lunga e defatigante per tutti, dall’altra si apre una riflessione critica su fatti e comportamenti che vedono contrapporsi da sempre ragazzi e genitori da una parte, insegnanti e scuola dall’altra. Tralascio un giudizio sulla sentenza che va rispettata per inoltrarmi, invece, su un terreno a me più congeniale: il rispetto delle persone che è poi uno dei principi cardine su cui si fonda l’educazione. Il problema, sostanzialmente, è come porsi di fronte ai ragazzi che fanno della vivacità esasperata un’arma offensiva rivolta sia verso i compagni di classe che verso i docenti o anche gli stessi genitori. La scuola è, per antonomasia, un luogo privilegiato dai ragazzi dove diventa indispensabile «mostrare i muscoli» per porsi o imporsi all’attenzione di quanti devono avere le idee chiare su chi merita il massimo rispetto. Prima di iniziare a farsi strada nel mondo, molti ragazzi si allenano a scuola a farsi strada tra le aule e i corridoi, tra studenti e docenti. La scuola come la strada è una palestra di vita. Ma soprattutto è un’occasione per fare incontri, stabilire le gerarchie, i ruoli, il peso della propria personalità. Uno studente, per certi aspetti, vive un’esperienza esaltante. Ha la possibilità di entrare in contatto con diverse persone, di affrontare diverse situazioni, di provare la gioia di essere amati, ma anche l’amarezza di essere odiati. Studenti e docenti avranno certezza di incontrare o di scontrarsi con persone gradevoli o con persone sgradevoli. I docenti verranno messi a dura prova quando la loro azione dovrà srotolarsi tra difficoltà relazionali di estrema sopportazione. Ma un educatore è pur sempre un educatore. La sua azione dovrà necessariamente farsi strada tra situazioni di sfida e atteggiamenti duri e crudi, tra momenti di disperazione e momenti di confusione. Il suo ufficio è destinato a scricchiolare nel momento in cui cede alle condizioni imposte senza regole ancorché senza remore. Forze esterne, non sempre razionali e non sempre benevoli, sono in grado di compromettere un lavoro portato avanti a fatica fino a far emergere i punti deboli. E’ questo il momento per un docente di portare allo scoperto lo spirito che gli è proprio, uno spirito di guida, una testimonianza propensa alla comprensione senza per questo cadere in un falso rapporto amicale. Docenti e studenti non sono amici, ma nemmeno nemici. Sono soggetti pensanti, coinvolti, in ruoli diversi, in un unico processo fatto di regole da non infrangere, dove chi sbaglia deve essere punito, ma mai umiliato. Ha sbagliato la docente di Palermo a infliggere quella che viene passata per una punizione quando, invece, sembra essere una odiosa coercizione. Ai ragazzi non vanno comminate esemplari lezioni, ma educative punizioni. Lo scopo di una punizione non è scatenare la reazione, non è provocare una ribellione o un risentimento che cresce nell’animo gonfiandosi nel tempo, è piuttosto la strada da ricercare insieme per trovare l’approvazione anche di chi la punizione la sente come correttiva e non come coercitiva. La posta in gioco è alta. Lo scopo principale di un docente è aiutare i ragazzi a non essere totalmente catturati dalle gravi azioni o provocazioni poiché la loro immaturità non li mette in condizione di risolvere da soli le situazioni. Lo scopo principale di un docente è quello di aiutare i ragazzi a trovare il proprio posto nella vita, di aiutare i ragazzi a prepararsi a un mondo adulto dove si scontreranno con le stesse situazioni per cui oggi vengono puniti. Ha sbagliato la docente di Palermo a porsi come figura autoritaria, espressione di un sistema formativo che predilige un percorso fatto di violenza psichica, costringendo l’alunno a trovare nell’autoumiliazione la soluzione al riscatto educativo. Non va dimenticato che molto spesso il trambusto creato dai ragazzi, sia pur velato da variabili offensive studiate ai danni di un compagno di classe, è un modo come un altro per entrare in un processo di competizione dove la legge del più forte è a garanzia del successo della monopolizzazione della personalità. I ragazzi vanno educati e non mortificati proprio in virtù dell’azione educativa che è sempre coinvolgente e mai estromettente. Una vicenda che deve far riflettere, che deve offrire occasione per richiamare alla mente di chi educa quanto importante sia la voglia di cambiare e di non ripetersi negli errori.

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