Tra industria e agricoltura c’è un futuro?

In tempi come questi, sono due sostanzialmente le domande che, più o meno tutti, si pongono: “Quale Lodigiano? Dove andremo a finire?”. La situazione, inutile sottolinearlo, non è per nulla incoraggiante ed è difficile cogliere segni che inducano più che ad un cauto ottimismo, almeno ad una sorta di “speranziella”.Compiendo una sorta di fotogramma aereo nel diagramma del tempo, mi viene alla memoria una sessione a Roma della Fao dei primi anni sessanta. Mentre sull’eidoform della sala passava una documentazione di cascine in degrado, fogne terminali di paesi a cielo aperto, campi incolti, pozzi artesiani per l’approvvigionamento idrico, dati sulla denutrizione e la mortalità infantile, la tubercolosi, l’analfabetismo, la disoccupazione e molto altro (la documentazione si riferiva verosimilmente agli anni cinquanta), il rappresentante della Santa Sede, Sua Ecc. Mons. Ligutti, dichiarava che il problema del sottosviluppo attecchiva drammaticamente anche nell’Italia del Nord, in particolare nel Basso Lodigiano cui si riferivano le immagini presentate. Nel suo intervento, tracciando una sorta di piramide per un work in progress, poneva alla base il recupero e il potenziamento della vocazione agricola, la sanificazione strutturale dei centri abitativi, l’implemento della cultura di base, il recupero di un progetto politico di area che non fosse condizionato dalle esigenze industriali, lavorative, occupazionali della metropoli lombarda.Certo, ne è passata di acqua sotto i ponti; ma le considerazioni di Mons. Ligutti fanno ancor oggi una certa impressione.E’ fuori di dubbio che l’area Lodigiana abbia compiuto sensibili progressi in molti settori. La vita è decisamente cambiata, il PIL è sensibilmente aumentato, talune sacche di povertà estrema si sono dissolte, patologie epidemiche come la tubercolosi sono cessate, con l’instaurazione di modelli di sviluppo che fino agli anni novanta lo hanno portato a reggere abbastanza bene il confronto e la competizione nella società italiana, sia pure con qualche sofferenza ritenuta strutturale quale il pendolarismo cronico e la vocazione ad una sorta di anarchia asfittica progettuale. L’aspetto più emblematico, in tal senso, resta il settore sanitario, un asset in perenne “malpancismo”. Ed è indubbio notare che la costituzione della provincia lodigiana, al di là di ogni colorazione di parte, abbia dato un apporto positivo globale. Il merito va ad una istituzione precedente: “Il Consorzio del Lodigiano” che ha costretto “volontariamente” i comuni grandi e piccoli dell’area e cercare di discutere e risolvere problemi comuni ed a cercare di comprendere che un potenziamento ed uno sviluppo delle proprie risorse, se non è omogeneo e coordinato, rischia il fallimento. Purtroppo il periodo successivo agli anni novanta, ha messo in risalto anche i limiti di questo sviluppo.

Il lodigiano oggiPer un’analisi, credo sia utile individuare la configurazione d’area per settori che potrebbero costituire, a grandi linee, altrettanti “modelli”: settore agricolo, settore industriale, le infrastrutture, sistema bancario, la Provincia.

AgricolturaNonostante la tanto decantata vocazione agricola del territorio, questo settore è sempre rimasto come il parente povero. Il confronto con la vicina Emilia vede il Lodigiano perdente e le responsabilità vanno equamente distribuite. Oggi la filiera lodigiana, che potrebbe avere buone prospettive di mercato allargato, può essere ancora definita un prodotto di nicchia. Che cosa si potrebbe fare? Prendendo a modello l’esperienza di alcuni dipartimenti della Francia (es. Bassa Normandia, Île de France), potrebbe essere vincente un cambiamento radicale di opzioni e di destinazioni di mercato. Che vantaggi avrebbe l’economia lodigiana se ogni cascina avesse un settore di agriturismo attrezzato? Che centralità guadagnerebbe con una sistematica realizzazione di parchi arborei attrezzati (magari anche cedui) a macchia d’olio sul territorio, con una ramificazione di infrastrutture continue ciclabili/pedonali di collegamento con i territori confinanti, con parcheggi all’inizio? Quali vantaggi a medio largo raggio conseguirebbe il lodigiano se potesse giovarsi di un marchio di qualità per tutti i suoi prodotti e una società cooperativa che ponesse in atto una strategia di mercato forte ed aggressiva per quanto concerne tutti i prodotti dell’agricoltura lodigiana? Invece di puntare sulle massicce coltivazioni intensive monoculturali (tipo mais) che, tra l’altro, esigono un intervento sostanzioso della chimica, con conseguente inquinamento, ci sarebbe un forte incremento di occupazione. Stando all’esperienza francese, da una quota iniziale di circa 700 posti di lavoro, a regime potrebbero arrivare tra gli 8/diecimila, con professionalità tipiche del settore turistico, alberghiero, commerciale, di tutela e conservazione del territorio, oltre gli addetti agricoli. In questo contesto, la realizzazione del canale navigabile, con i dovuti controlli e il senso di responsabilità, non costituirebbe certo una fogna artificiale a cielo aperto né un indebito impoverimento del suolo; ma un ulteriore opportunità di valorizzazione dell’area a largo raggio ed ad inquinamento sostenibile, come avviene in molte nazioni d’Europa. Anche l’Adda dovrebbe diventare una via d’acqua praticabile. I parchi di oggi hanno soprattutto una funzione conservativa e di tutela degli habitat; non si capisce perché non si possa instaurare un equilibrio con una dimensione più antropologica. Se ci riescono i cugini francesi lungo la Garonna, non vedo perché non lo possono fare i Lodigiani. Certo, occorrono due condizioni particolari: l’abbandono da parte dei cosiddetti “agricoltori” di una mentalità chiusa, a volte fissista e conservativa; la ricerca e la finalizzazione di appositi investimenti. In proposito, sarà opportuno sottolineare un aspetto recentemente venuto alla ribalta. In Europa ci sono fondi per miliardi di euro che l’Italia (comuni, province, regioni, Stato stesso) non ha utilizzato né utilizza. Il problema è, venendo a casa nostra, che il Lodigiano di queste opportunità non ne sa nulla e i fondi europei vengono concessi solo su progetti. Perché non ci si mette tutti quanti attorno a un tavolo e non si elabora un progetto globale dell’area magari per il settore agricolo? Le situazioni di crisi e di recessione non si superano senza una progettualità che tenga conto “del poi” e delle nuove esigenze imposte dalla globalizzazione. Invece si ha la sensazione che non esista “un governo” dell’agricoltura Lodigiana.

IndustriaIl Lodigiano aveva pianificato, non tanto su scelte, quanto su dati storici, quattro aree di sviluppo industriale: l’area Gulf, Casalpusterlengo, Codogno, Lodi. Accanto a queste – a partire dal 1985 – si sono sviluppati insediamenti di carattere artigianale, frutto dell’iniziativa individuale di talune amministrazione (Ospedaletto, Somaglia, Mirandolina, San Rocco al Porto, ecc.). Ospedaletto Lodigiano ha data poi spazio anche al complesso Inalca. L’area Gulf (più che investimento, speculazione sciagurata e tossica) è stata la prima a chiudere lasciando macerie ecologiche . Da tempo, però, tutto il restante settore industriale, sostanzialmente rimasto abbandonato a se stesso da parte delle amministrazioni, è entrato in crisi. Ne è un esempio, tra i tanti, l’Unilever di Casalpusterlengo che sta riducendo continuamente investimenti ed occupazione. Giustamente le RSU CGIL, in una lettera a “Il Cittadino” (2 aprile, p. 16) indicano come il problema sia sostanzialmente “politico”. Nel senso che al potere “enorme” delle aziende (soprattutto se multinazionali) non corrisponde una funzione pubblica di riferimento che serva, se non a bilanciarlo, per lo meno a fare da controparte autorevole. Aggiungasi che l’attuale recessione ha demolito anche il settore dei piccoli e medi imprenditori. Un altro aspetto importante è costituito dallo sviluppo territoriale egli insediamenti di logistica pura cioè non di trasformazione, oggetto di critiche e di contestazioni spesso giustificate dal fatto che i benefici per il territorio sono pressoché insignificanti, a fronte di una imponente colonizzazione delle aree. In proposito, i dati eloquenti della Regione Lombardia indicano che tra il 1999 e il 2009, si è consumato territorio agricolo al ritmo di 20.000 mq. al giorno (cfr. Lombardia Notizie, 7). In questo settore due sono i problemi: come trattenere e incentivare insediamenti industriali compatibili, come sostenere e incentivare il livello occupazionale. Purtroppo non si scoprono all’orizzonte segnali positivi o vie facilmente percorribili. Una cosa è certa: non si può procedere a battaglioni sparsi, ma occorre fare sistema. Come? Il punto di partenza potrebbe essere una task force di area composta dai rappresentanti qualificati degli organismi economici territoriali (Camera di Commercio, Ass. Industriali, sindacati, settore bancario, ecc.) che abbiano ad elaborare piani attuativi per un recupero del settore, intrattenendo un contatto sistematico, autorevole ed approfondito con le industrie del territorio per conoscerne le reali intenzioni, avendo a disposizione la possibilità di incentivi , primo a fronte di un consolidamento nell’area di chi già c’è, secondo per porre in essere una ricerca tramite i canali confindustriali di quali aziende compatibili, anche estere, siano intenzionate ad investire e a delocalizzare in Italia; terzo negli accordi dovrebbe prevalere in concetto di occupazione diretta dei lavoratori. Sarebbe infine necessario poter contare su un istituto di credito ad hoc, una sorta di “Banca di investimenti”. Non è una strategia nuova, anzi si scopre l’acqua calda, perché ( esemplifico con situazioni precise) gli insediamenti industriali di Casalpusterlengo, negli anni di grande espansione, sono nati così, captando anche aziende in mobilità sul territorio (es. SIVAM). (1 - continua)

La seconda parte dell’articolo verrà pubblicata sul «Cittadino» di domani, venerdì 1 giugno, in prima pagina.

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