Torneremo ancora, oggi, giù nella cripta

Ritorna la festa del patrono della città e della diocesi di Lodi. San Bassiano, uno dei grandi mercanti di neve.

Ma non importa se quest’anno non abbiamo ancora visto la parpaglia di una nevicata, perché saranno in migliaia, anche oggi, a scendere nella cripta della cattedrale di Lodi, in una fila interminabile di uomini e donne di tutte le età. Tra le nebbie degli incensi e le fiammelle delle candele raggiungeranno il patrono, sfioreranno il vetro dell’urna e qualcuno sosterà un momento davanti alle sagome immote dei caragnòn del dom. Poi tutti fuori, sulla piazza vociante, nel trambusto delle bancarelle, i venditori dei filsòn di castagne secche e la scodellina di büseca fumante che ha quel sapore lì solo nel giorno del patrono. È un rito arcano, che si ripete da secoli, una generazione dopo l’altra, in un impasto di fede e di tradizioni, di sacralità e di gesti.

E il pensiero corre lontano.

Bassiano, primo vescovo di Lodi antica. Il predecessore di una schiera di vescovi tutti d’un pezzo, che hanno speso la vita per la crescita e lo sviluppo delle popolazioni loro affidate, non solo in campo pastorale. Che hanno promosso la nascita di casse rurali e cooperative di consumo. Che hanno sostenuto la lotta di preti sanguigni che indicavano nelle fabbriche dove nasceva la parola misericordia, e sotto i porticati delle stalle, nei cascinali della Bassa grandi come paesi, organizzavano scioperi contadini. Vescovi che hanno soccorso i poveri senza timore di farlo insieme agli atei mangiapreti. Che hanno eretto cattedrali. Che hanno fondato società operaie e giornali che durano ancora oggi. Sembrano separarci millenni da quegli eventi, perché oggi il mondo sta cambiando volto. I nuovi poteri, malcelati nei potentati che corrono sulla Rete, tentano di piegarci verso i loro monopoli. Nuovi popoli si stanno affacciando ai confini della vecchia Europa, consapevoli che è giunto anche per loro il tempo di partecipare alla spartizione di quelle ricchezze che non hanno mai posseduto. E poi i fantocci che danzano nel web, che da tempo hanno preso a spallate la nostra democrazia.

Riusciremo a conservare la nostra cultura? Il dialetto, le feste patronali, gli ottanta gonfaloni dei municipi che s’innalzano dalla periferia della metropoli alle sponde del Grande fiume? Che ne sarà dei nostri figli che non trovano lavoro e sono costretti ad andare a mendicarlo in Paesi lontani? Dei giovani dal volto smarrito e dalla pelle scura che hanno percorso migliaia di chilometri per arrivare tra noi e oggi agli angoli delle strade ti tendono la mano? Dei vecchi la cui pensione non è sufficiente a coprire il costo delle medicine? E del pianeta terra, e dell’inquinamento, e di quei mali che riempiono gli hospice, e di quell’immondizia disseminata nei campi...?

Scenderemo ancora nella cripta, oggi, per fare visita al patrono. Consapevoli che dentro quell’urna non riposano solo le poche ossa rivestite dai paramenti luccicanti di colui che fu il primo vescovo di Lodi antica. Lì c’è il simbolo di una lodigianità mai sopita. L’emblema della diocesi, di un’istituzione – l’unica – che nel rincorrersi dei secoli ha tenuto alta l’identità e l’autonomia del territorio.

Con questi sentimenti torneremo nel buio della cripta, consapevoli che pochi altri luoghi del Lodigiano rivestono significati così pregnanti. È pensando al significato della nostra cultura e delle nostre radici che troveremo la forza, l’impeto e lo slancio che ci permetteranno di superare il momento buio che stiamo attraversando. Attingendo a quei valori, credenti e non credenti, troveremo la strada per affrontare il futuro, alla ricerca dei vasti orizzonti che hanno visto il nostro popolo, in situazioni ben peggiori, tornare a sperare. E a guardare lontano.

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