Terremoto, l’umile forza dei nostri avi

Mi sono sentito chiamare per nome mentre ero intento a fotografare la chiesa della mia infanzia nel punto in cui l’intera facciata si stava staccando dal corpo dell’edificio. “Cadrà con la faccia in avanti – stavo pensando – come un Cristo a cui hanno tolto i chiodi dalle mani ma non dai piedi, come quello della chiesa di Madonna Boschi, solitario e sommerso dalla polvere in mezzo alla navata centrale”, credo che nessuna immagine possa rendere meglio l’idea dell’impotenza: cadere aggrappandosi all’aria nell’estremo tentativo di cercare appigli.Una voce mi ha chiamato per nome, un volto familiare, un po’ scavato dagli anni: “Pensi che avremo mai più la nostra chiesa?”. Guardava avanti, verso la facciata, e non per la morbosa curiosità di chi spera di essere spettatore di qualcosa di terribile e di unico, il possibile crollo della centenaria chiesa di Vigarano Mainarda, ma piuttosto come un parente stretto che viene a chiedere al dottore se il paziente ce la farà.Questa era l’atmosfera che plasmava i volti e le parole della gente davanti alle chiese tra Ferrara e Bondeno il giorno dopo il terremoto. E poi le facce dei miei amici sacerdoti, smarrite: don Raffaele, don Graziano, don Andrea, don James, don Marino, don Giorgio e tutti gli altri, domenica pomeriggio 20 maggio. Una domenica che ha tanto il sapore di una Via Crucis, sotto una pioggia beffarda di fine primavera.Entro nella chiesa di Vigarano Pieve, campanile mozzato e croce a penzoloni, e provo una fitta al cuore quando sento sgretolarsi sotto i piedi i frammenti di affresco della navata centrale ridotti a centinaia di granelli: angeli, putti o martiri polverizzati. Vorrei poter volare per non collaborare a questo scempio, ma sono le 15.20, e dentro la chiesa settecentesca la terra torna a tremare, un grosso blocco di affresco si stacca da un altare laterale, grida e corse, il fumo mi ricorda in un lampo la basilica di Assisi. Ma mi stupisce il parroco, fermo in mezzo alla navata, immobile come le statue degli altari, una parte costitutiva del tempio. “Cosa fare? Per ora niente – sussurra – non sappiamo se il terremoto abbia esaurito la sua forza, e poi... è meglio non rischiare né mettere a rischio la vita di tante persone che vorrebbero aiutarci; che strano, dovremmo essere noi ad aiutare...”. Gli fa eco un altro parroco: “Verrà il momento e la nostra gente saprà dimostrare tutto il suo attaccamento. Mi hanno telefonato in tanti, e tanti si sono offerti. Ora ho capito davvero che la chiesa è loro, anzi la Chiesa sono loro”. “Il terremoto – prosegue – ci ha fatto capire quanto siamo piccoli, quanto i nostri progetti di una vita possano essere spazzati via in un attimo, ma anche di quanto bene siamo ancora capaci e quanto la nostra fede possa aiutarci a ricominciare”.Forse crollano le chiese, mi sono detto, ma la Chiesa è un’altra cosa, ed è viva, nelle gente e nei suoi preti, anche se ora siamo doloranti e smarriti.

Massimo Manservigi, direttore “La Voce di Ferrara-Comacchio”

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Il primo pensiero è per chi ha perso la vita per colpa di quelle macerie. Ed è un pensiero nella preghiera e di vicinanza a chi soffre a causa di quelle perdite. Poi, subito dopo, la mente corre a chi con il terremoto ha perso casa, beni, certezze e speranza. Ed è un pensiero che, invece, vuole proprio infondere speranza. Quella speranza che si può percepire con la vicinanza, fisica o spirituale, e che diventa comunione forte, se vissuta nel nome di chi si riconosce essere il “Signore della vita e della morte”.Le comunità della Bassa modenese sono state colpite fortemente dal sisma che alle 4.04 di domenica 20 maggio ha come cristallizzato vite ed esperienze e mandato in frantumi gran parte di questa bella terra operosa e intraprendente, abitata da gente poco propensa alla rassegnazione e al fatalismo. Ed è stata, però, anche la pronta solidarietà, subito scattata, a “tendere una mano” alla popolazione di Finale, San Felice, Medolla, Cavezzo, San Prospero e degli altri centri minori. Aiuti che stanno veramente sorreggendo lo spirito di chi ha vissuto momenti terribili. Poi, è vero, medicate le ferite dell’animo, resta il dolore e il vuoto, quello sì che pare incolmabile, per i simboli di quelle comunità andati in pezzi: chiese e campanili distrutti, castelli venuti giù come fossero di carta, testimonianze di un passato cancellate forse per sempre. E, insieme, anche l’angoscia e l’incertezza per il futuro, per i contraccolpi sull’economia, per il lavoro che forse non ci sarà più o potrà, comunque, essere diverso. Per tutto questo, per quello che ognuno può o potrà fare secondo le sue effettive possibilità, è importante davvero che ci sentiamo un po’ tutti “cittadini della Bassa”.

Stefano Malagoli, direttore “Nostro Tempo” (Modena-Nonantola)

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Ha ragione Davide Rondoni, poeta più che mai addentro alle vicende umane, quando scrive su “Avvenire” che “le chiese ferite colpite dal terremoto sono il segno stesso della grande ferita... E anche chi in chiesa non ci andava – in una terra mai tenera con i preti e i cattolici – ora guarda quei monconi, quei muri precipitati con una tristezza infinita. Con una profonda partecipazione. Perché i segni comuni, anche quando non sembrano importanti, lavorano tra noi. Ci ‘legano’ in comunità. Rendono ‘nostre’ certe terre, certe strade. I segni lasciati da generazioni prima di noi, da una folla spesso quasi tutta perduta nell’oblio, lavorano per tenerci insieme. Anche quando appaiono muti, hanno una speciale eloquenza che parla ai cuori”.Proprio questa la sensazione che si ha andando in silenzioso pellegrinaggio tra i paesi e le frazioni di Mirandola e Concordia. Ora però c’è da ripartire, riprendere come possibile, anche nella precarietà, la vita delle comunità, pensare alle pietre vive, poi ci sarà il tempo di ricostruire, di pensare alle chiese di pietra. Sempre il poeta Rondoni si chiede “dove troveremo altre linfe per costruire e rialzare segni che abbiano quella forza? Dalla risposta a una domanda del genere dipende la vera ricostruzione, il vero medicamento delle ferite profonde. E quel che saremo, a meno che non si sia perduta, nella nostra distratta supponenza, l’umile forza dei nostri avi, la loro sfrontata, dolcissima pietà, la loro dura tenacia. A loro, oltre che a noi stessi e ai nostri figli, dobbiamo l’impegno di ricostruire...”. Lunedì scorso, ancora affranti di fronte alla distruzione, leggendo il Vangelo, come ci ha ricordato il vescovo, abbiamo avuto la risposta: “Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!”. Allora coraggio rialziamoci.

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