Tasse e debiti, sono tre gli imperativi

Dare a Cesare quel che è di Cesare è monito antico; non particolarmente rispettato nell’Italia di oggi, se sono vere le statistiche che parlano di un’imponente fetta di ricchezza nazionale sottratta alla tassazione. Quantificare l’evasione fiscale è esercizio assai difficile proprio per la sua natura nascosta; ma anche le stime meno pessimistiche ammettono che lo Stato italiano non riesce ad incassare almeno 100 miliardi di euro ogni anno. Una somma ragguardevole, tra le più alte sia in percentuale sul Pil che in cifra assoluta tra tutti i Paesi del Primo mondo. Non da oggi. L’evasione fiscale e contributiva ha storia lunga dietro alle spalle. Un certo lassismo nei versamenti – e nei controlli – ha radici profonde e ha permesso, nei decenni passati, di “patrimonializzare” una buona fetta dell’economia e della società italiana. Ora la situazione appare insostenibile alla luce della pressione fiscale via via cresciuta sulle spalle di chi fa il proprio dovere nei confronti di Cesare.

Oggidì il contribuente onesto – quello che, volente o nolente, le tasse le paga tutte o quasi – si vede sottrarre un terzo del proprio reddito tramite la contribuzione pensionistica. Di quel che rimane, un altro terzo in media finisce allo Stato e agli enti locali tramite Irpef. Infine il reddito netto paga ulteriori tasse nel momento dell’acquisto di beni e servizi: fino al 21% di Iva, per non parlare della pressione tributaria spropositata su carburanti, energia elettrica e metano.

Molto meglio se la cavano le rendite, finanziarie e immobiliari: qui in media affitti e interessi pagano un 20%, anche se è da qualche mese iniziato un percorso differente che vorrebbe far pagare meno i redditi da lavoro, di più quelli da rendite.

Ma torniamo all’evasione fiscale, che ha dimensioni grandi e ramificate. Sulla questione si può fare una facile – ancorché giusta – demagogia: tutti devono pagare il giusto. Ed è sicuramente vero che, pagando tutti il giusto, si pagherebbe tutti di meno. Il problema è arrivare a questa equità con strumenti un po’ più efficaci dei proclami verbali. E guardare la realtà con occhiali non deformati dal giusto principio di eguaglianza.

Tutti gli evasori sono raffigurabili nel losco individuo che campeggia in una discutibile campagna pubblicitaria governativa anti-evasione? La realtà appare più complessa. Una non indifferente fetta di evasione fiscale la si potrebbe invece classificare come “welfare indiretto”. Parliamoci chiaro: in alcune regioni italiane il pagamento di tasse e contributi appare spesso un optional; il “nero” è il colore dominante, non una sfumatura. Forse è anche necessario: per quanto ripugni dirlo, il già poco lavoro che c’è, sparirebbe se dovesse essere pagato ai pur minimi contrattuali.

La Cina ce l’abbiamo in casa: nell’edilizia, nell’agricoltura, nei servizi di un’ampia fetta d’Italia le retribuzioni sono concorrenziali con l’Est europeo, e non molto più alte di certi Paesi del Terzo mondo. E già così, l’economia non “gira”. Cosa succederebbe tra i cantieri e le campagne meridionali, se il costo del lavoro improvvisamente triplicasse? Dovrebbe succedere, è necessario che succeda. Ma quando accadrà, bisognerà aver predisposto alternative molto valide.

Un’altra fetta di evasione la si può classificare come “contributo statale allo sbarcare il lunario”. Molti piccoli negozi, artigiani, diverse figure lavorative diffuse in ogni dove d’Italia, senza qualche dimenticanza davanti alla cassa o al libretto fatture non ce la farebbero a campare. Diciamo che così la collettività dà il suo involontario sostegno al contenimento della disoccupazione. Collettività che non è esente dal peccato: quanti si premurano di chiedere fattura, addossandosi il 21% di Iva sul prezzo del bene o della prestazione? L’evasione qui è doppia.

Ma non vorremmo apparire troppo “arrendevoli” nel dichiarare che, se tutta l’evasione fiscale va stanata, è indubbiamente meglio porsi qualche priorità. Ne indichiamo due, per la loro dose di ingiustizia e per un fatto puramente quantitativo. Anzitutto va ristretta fortemente quell’elusione fiscale che consiste ai grandi guadagni, aziendali e personali, di trovare riparo in convenienti paradisi fiscali all’estero, o in scatole cinesi finanziarie che minimizzano la tassazione. Il paradosso italiano – e mondiale: l’ha sottolineato recentemente uno degli uomini più ricchi del mondo, il finanziere Warren Buffett – è che i ricchissimi pagano in sostanza cifre ridicole sui loro guadagni. Con molti soldi a disposizione, si riesce facilmente ad aggirare le pretese del Fisco.

Quest’ultimo ha recentemente guardato nel vaso di Pandora delle operazioni finanziarie di alcune banche italiane, e di qualche multinazionale: scoperchiandolo, ha scoperto centinaia di milioni di euro (ciascuno) di tasse evase. Gli interessati alla fine hanno preferito venire a patti, e pagare…

Dentro questo capitolo ci stanno una legislazione tributaria, civile e penale fatte apposta per tutelare i furbi e danneggiare gli onesti. I grandi assenti sono la chiarezza delle regole e la certezza della pena, i veri paletti a chi fraudolentemente sa aggirarsi tra false fatturazioni, operazioni Iva, bilanci artefatti, fallimenti e bancarotte.

E mentre si tocca chi non ha mai dato, o lo ha fatto insufficientemente, nel contempo è necessario che lo Stato italiano cominci almeno a chiedere un po’ di meno. Quindi a spendere un po’ di meno. L’insostenibilità dei suoi conti è alla luce del sole del mondo, tanto che da decenni stiamo accumulando un debito pubblico colossale. L’inversione di rotta è non solo auspicabile, ma doverosa.

Altro capitolo è quello dell’ottimizzazione della spesa pubblica, sul quale il governo Monti ha aperto l’ultimo dossier. Ha di fronte montagne da scalare, poiché lo Stato italiano nella sua struttura contabile non ha la più pallida idea di quanti soldi spende di preciso (la spesa sanitaria, la più imponente, è rimasta fuori controllo in diverse Regioni fino a ieri). Non sa quanto spende, figurarsi il come. Un lusso che non possiamo più permetterci.

© RIPRODUZIONE RISERVATA