Speriamo che mi tocchi essere capito

Nel Purgatorio (VI canto)Virgilio dice a Dante: “la mia scrittura è piana”, cioè chiara. Quando la scrittura non è piana? Capita spesso di sentire che il tale autore “scrive difficile” (o parla difficile) e mi capita di sentirlo dire da qualcuno sul mio conto, anche recentemente. Però, “se ben si guarda con la mente” (ancora Dante) dico che non è così, perché tutto dipende dal nostro grado di percezione del conoscere e soprattutto del comprendere, per dire, insomma, dal nostro grado di cultura. È risaputo che non è quasi mai vero affermare che esiste un passo di scrittura, poesia inclusa, o un discorso incomprensibile o incomunicabile. In quanto alla “parola” invece, che è definita dall’oggetto che rappresenta e che in sé riassume spesso veste di concetto, se non si conosce il suo significato tutto risulta oscuro. E allora basta ricorrere al vocabolario che è a disposizione di tutti e tutto si accomoda. Pertanto, senza svilire l’essenziale confondendolo con il futile o l’inutile, occorre ribadire che ogni scrittura presenta la propria personalità e che qualsiasi comunicazione (parlata o scritta) è in teoria comprensibile. Al massimo si potrà giudicarla priva di personalità, perché sfocata ovvero “terra di nessuno”, oppure poco scorrevole, confusamente errabonda con qualche indicibilità di senso o di decifrazione difficoltosa, ma, come in tutte le discipline dello scibile, attraverso l’apprendimento si appianano le difficoltà. Certamente una scrittura concentrata (la concentrazione è il primo dono dello stile), di pensiero, con argomentazioni dialettiche e critiche, è più ardua, richiede maggior riflessione e un doveroso sforzo intellettivo per la comprensione e questo avviene quando ci si addentra in resoconti non cronachistici o di natura giornalistica, ma in quelli dove rigore e scientificità pretendono un linguaggio proprio, specialistico, filologico, di andamento saggistico. Non può essere perciò una “parola” oscura in quanto non conosciuta a far considerare “difficile” tutto il resto, a oscurare la chiarezza, la vitalità e lo smalto espressivo, la densità argomentativa della scrittura. E’ un fraintendimento senza fondamento (cos’è, allitterazione o bisticcio?)

Non tanto tempo fa ho riletto “Guerra e pace” di Tolstoi, questo Omero moderno con un capolavoro assoluto da consigliare a tutti. La prima volta è stato a scuola, qualche scorcio di personaggi e situazioni, ma a pezzi e bocconi non si costruisce nulla. Povera Natascia capitata nelle fauci di un lettore balbettante e sprovveduto. L’ho riletto meglio anni dopo, acquisendo più sostanza, ma non ancora in modo persuasivo e convincente. Finalmente, l’ultimo passaggio, dove tutto è stato più confortante, perché nel frattempo la mia conoscenza percettiva era cresciuta e la lingua francese più addomesticabile. Così è stato per la poesia di Montale, oltremodo difficile per la sua parte specie nelle “Occasioni” e in “La bufera e altro”.

Torniamo allo scrivere difficile. Personalmente ho condensato la perspicuità della scrittura (o almeno tento di farlo) in una dimensione culturalmente più estesa, intrecciandola in una pluralità di modulazioni espressive e pensandola in una convergenza di concettualità e lirismo. E’ una scelta con tutte le insidie del caso. Si scrive in molteplici modi e ogni scrittura ha la sua voce, la sua avventura e a volte ardisce alla polifonia che però è dei veri scrittori.

Il problema è riuscire a vestire di bella forma l’adesione delle idee all’espressione per quello stile che è dello scrivere bene più che del bello scrivere, spesso risultante manierato e flebile. Cosa non facile da raggiungere, però la volontà può aiutare, cominciando con lo stralciare “gli stenti” (Manzoni) e “il fogliame morto” (Carducci) in funzione della provvida parola, perché romanzieri si nasce, scrittori si diventa.

Ognuno poi sceglie i propri idioletti o vezzi, per dire il ricorso all’utilizzo di qualche mezzo figurato o figura retorica. Per esempio, io per me, amo la citazione, non da esibire come cultura dell’ipse-dixit o da ostentare quale catalogo ricicciatore di aforismi, ma ricerca invece di intertestualità, nel senso di intarsi che adeguano il peso della scrittura allo stile terso e prosciugato simile a quello della epigrafica concisione custodito dalla massima, nel testo come in esergo.

Ecco allora che la scrittura, guidata in questo modo, si spoglia delle parole superflue o abusate, del genericismo di quelle opache e neutre (qualcuna grigia, perchè semplice, serve a dar risalto alle fosforiche o lucenti) per giungere infine con attenta sorveglianza alla distinzione fra parole decisive, definitive e sprecate, inerti.

Un altro ricorso da me utilizzato è dato dalla mescolanza delle lingue, in cui il mistilinguismo delle citazioni è un movimento risonante per l’incisività fonetica oltre che espressiva della lingua straniera. Mistilinguismo o forse meglio dire plurilinguismo che è pure connotazione, acutum coerente di toni, di ritmi, di strati e passaggi colti.

Per ultimo citiamo l’uso anastrofico, altra mia inclinazione, seppure inconsapevole, dell’io narrante come inversione nella risalita rievocativa della memoria. Esempi: nella “Piombara della vita” racconto prima le gesta del mio secondogenito Giulio rispetto ad Alberto; in “Tempo e morte”, stesso rovesciamento quando all’inizio del libro accenno al funerale di mia madre rispetto a quello anticipato di diciassette anni di papà Egidio.

E così parlando “piano” ho usato qualche parola oscura, concettuale, non certo una scrittura difficile, forse solo apparentemente, perché imparato il significato della parola si scopre l’arcano, e tutto diventa più immediato.

Chiudo con una citazione di Paul Valéry pertinente a questo discorso: “speriamo che mi tocchi l’avventura di essere capito”. Speriamo e così sia, per buona pace di tutti, anche di coloro che non si affaticheranno a leggere questa mia puntualizzante divagazione.

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