Siamo sicuri sia tutta colpa di WhatsApp?

«Galeotto fu WhatsApp e chi lo inventò, da quel giorno più non vendemmo droga». Avrebbe mai riscritto Dante i versi del capitolo quinto se invece di parlare dell’amore rubato tra Paolo e Francesca, avesse raccontato le losche e temerarie modalità messe in atto da alcuni studenti per trafficare tranquillamente droga? È quello che forse si sono chiesti i Carabinieri di Casina in provincia di Reggio Emilia, quando sul finire della scorsa settimana, navigando in internet a caccia di prede da ingabbiare, si sono imbattuti in un link dallo schema criptato alquanto singolare che consentiva ad alcuni ragazzi, peraltro quasi tutti minorenni, di spacciare tranquillamente massicce dosi di stupefacenti. Il tutto avveniva mediante messaggi criptati su WhatsApp, conosciuti da una ristretta cerchia di ragazzi interessati a impasticcarsi, e come al solito di famiglie per bene, educati ma molto scaltri nel tentare di non essere intercettati (chiamali minorenni). Ragazzini con ancora l’odore del latte in bocca, tanto abili nell’uso di specifiche “App” da rendere il loro traffico più redditizio e la vita scolastica più semplice di quanto non la si possa vivere in modo tradizionale. Per qualcuno sono dei ragazzini per loro stessa natura portati a sbagliare e che pertanto vanno compresi e aiutati. Per altri sono errori di gioventù che sia pur gravi non possono e non devono lasciare un marchio a vita. E questo ci può stare. A tutti va sempre data una seconda opportunità, specie se giovanissimi . Questo vale anche per gli adulti. È capitato, infatti, anche a una supplente del Liceo “Duca degli Abruzzi” di Treviso di sbagliare. Un bel giorno si è accorta di essere finita, suo malgrado, in rete con foto osé scattate in gioventù, quando da studentessa universitaria, con piercing all’ombelico e tatuaggi scolpiti là dove non batte il sole, messi comunque in bella mostra, si arrangiava a fare qualche lavoretto per pagarsi gli studi. Ma il tempo passa per tutti e con esso cresce anche la saggezza. E così arriva il giorno in cui spariscono per sempre piercing, tatuaggi e foto osé. Ora che il senno prende il sopravvento, insegna spagnolo con merito e fiducia nelle famiglie e soprattutto nei suoi allievi. Errore di gioventù dice lei. E in effetti l’intemperanza giovanile può portare a fare errori. Forse per questo tutti, preside compresa, si sono schierati a difenderla. Non così si può dire della professoressa dell’Istituto “Casale” di Vigevano che aveva creato il gruppo dell’intera scolaresca su WhatsApp con l’intento di utilizzare la tecnologia per rendere più proficui i rapporti didattici tra lei e i suoi studenti. Ma anche in questo caso galeotto fu WhatsApp. Per rendere piacevole la vista del suo adorabile compagno, decide di inviargli un paio di selfie in stato di beatitudine ovvero nuda come mamma l’ha fatta. Ma ahimè qualcosa va storto. Anziché al suo compagno i selfie finiscono su WhatsApp del gruppo classe e così tutti i suoi allievi si sono deliziati delle sue grazie inclusa quella che Empedocle, un filosofo agrigentino, contemporaneo di Parmenide e Senofonte, contestatore come il nostro Capanna negli anni sessanta, amava definire con una metafora «la fessura dei prati di Afrodite». La preside, al secolo Stefania Pigorini, informata dell’accaduto, assume un atteggiamento prudenziale prima di prendere eventuali decisioni di natura disciplinare nei suoi confronti. Personalmente a fatti così acclarati, non avrei indugiato a procedere con una sanzione disciplinare. Tre/quattro mesi senza stipendio sarebbe stata la giusta risposta. Altro che selfie senza censura. Errore di gioventù anche in questo caso? Non direi. Una sorta di ingenuità unitamente a un errore di messaggeria ha portato qualche imbarazzo tra studenti e famiglie e riserva nella pubblica amministrazione. Può un uso improprio della tecnologia essere considerato un “errore di gioventù”, mettendo in ridicolo lo stesso comportamento etico che a un insegnante è sempre richiesto? Ciascuno di noi non dovrebbe mai sfuggire alle proprie responsabilità. Il condizionale è d’obbligo. Nel nostro caso due insegnanti per necessità, per narcisismo o per eccesso di protagonismo finiscono per mettere la scuola in una posizione di debolezza. Mescolare pubblico e privato non va bene, come non va bene che un insegnante parli in classe ai propri allievi dei suoi problemi privati. Parlare di cani e gatti che non mangiano, di figli che fanno arrabbiare, di suocere o di nuore ingrate o di stomaco che non digerisce a causa del nervoso, stanno a dimostrare che probabilmente qualche insegnante non ha nulla più da offrire ai propri allievi che problemi personali. Un comportamento discutibile che fa presagire la presenza di problemi relazionali che prendono il sopravvento sulla deontologia professionale. Quando non si riesce a separare la funzione privata di padre o madre da quella pubblica di educatore o educatrice, quando il rapporto confidenziale varca i confini del rapporto educativo, allora il social network, che sia whatsapp o facebook, twitter o youtube, linkedin o instagram, diventa mezzo e strumento per alimentare una confusione di identità. E nella confusione, si sa, il rischio di creare equivoci è molto elevato. Nella relazione tra docenti e discenti entrano in gioco in maniera preponderante precise dinamiche relazionali al punto da rendere necessario sgombrare la comunicazione da eventuali distorsioni di pensiero o peggio ancora da pericolosi giochi psicologici. Certi comportamenti possono rendere disfunzionali i rapporti tra insegnanti e alunni. Il social network come mezzo di comunicazione può condizionare e influenzare i valori culturali che nel contesto classe possono sfociare in valori personali. L’autenticità del rapporto tra insegnanti e alunni non può fare a meno della comunicazione diretta che renda esplicito i propri bisogni e le proprie difficoltà, le proprie ansie e le proprie aspirazioni. Whatsapp, per fare un dispetto ad Aristotele che sosteneva che «oramai tutto quello che c’era da inventare lo abbiamo inventato» è solo un mezzo e strumento inventato dall’uomo del XXI secolo per comunicare in modo diverso e non in modo innaturale.

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