Si dissolve il patrimonio ambientale

L’articolo di Gesualdo Sovrano sul Cittadino di sabato 7 maggio, relativo alla possibile riqualificazione dell’Isola Carolina, ha dato voce anche ai miei pensieri. Proprio alcuni giorni fa, camminando lungo i giardini di Viale IV Novembre a Lodi, osservavo pensierosa il risultato di un lavoro certamente costato ingenti sacrifici al Comune e alla cittadinanza, ma, per il mio modo di vedere e sentire, incapace di tentarmi a sostare per il fievole impatto e il pallido fascino. Nessuna critica agli ideatori o ai politici, che hanno fatto del loro meglio per offrire alla città un lavoro qualitativamente valido, ma il neo parco, seppur curato nei minimi dettagli, esteticamente molto composto e ordinato, fino ad essere quasi lezioso, non suscita in me trasporto e tanto meno brividi da contemplazione. Mi lascia alquanto indifferente, nella sua ricercata simmetria, nell’aridità della sua eleganza.

Eleganza, simmetria, estremo rispetto delle proporzioni sono parametri che nelle diverse età classiche della storia hanno qualificato il meglio dell’arte umana, ma gli stessi, applicati alla natura, sembrano svuotarla di contenuto. Essa necessita di spontaneità, qualche volta di sregolatezza, di libera espressione perché riesca ad arrivare agli anfratti del cuore e dell’anima, là dove si annidano le sensazioni più intime, le pulsioni più sincere.

L’impressione percepita a Lodi non si discosta da quella già vissuta, tempo fa, a Codogno, nella mia città. Per dar vita ad un fazzoletto di giardino all’italiana erano stati sacrificati vecchi alberi di Acacia dal ricco fogliame, dalle fronde ombrose e refrigeranti nella calura estiva. Davanti alla storica scuola “Anna Vertua Gentile” un antico pezzo di verde moriva, così come oggi muore nell’indifferenza il parco della villa Polenghi, senza che una nuova riqualificazione compiuta o ipotizzata ne sostituisse il perduto fascino.

Mi resi conto allora di aver perso un piccolo tesoro antico e speciale, costretto a passare il testimone all’incedere di qualcosa di nuovo, ma dalla connotazione ben più anonima e sterile. A questa percezione di disagio si aggiungeva la contrarietà nel veder svilito un angolo di verde pubblico rimpiazzato da un sedicente parco insignificante e incapace di provocare sussulti.

Da tempo ci siamo abituati a veder dissolversi nel nulla la ricchezza naturale del nostro territorio, ora stravolta da politiche di bassa lega, ora manipolata da “architetti del verde” che con troppa facilità e leggerezza disboscano, tagliano, feriscono un patrimonio rimasto integro per decenni, se non per secoli, e di colpo tranciato in nome di una ricerca estetica fine a se stessa. Un patrimonio perso irrimediabilmente, che non verrà sostituito e, qualora lo fosse, impiegherebbe anni per ritornare a splendere.

Se ogni giorno la nostra pianura va scemando, divelta dalle ruspe, divorata dalla logistica e dal cemento, ferita dalle nuove mille arterie che mai risolvono un solo problema del traffico; se nella campagna scompaiono i campi di frumento, di colza, i filari di gelsi, di piante, di arbusti i cui nomi si sono quasi persi nel tempo e nel vento, in città la situazione non è affatto migliore. Il verde pubblico si infeltrisce ed accartoccia, oppure scompare e, quando rimane, è sconvolto da regole che, come cesoie, ne umiliano la sua stessa natura.

L’intervento dell’uomo non è che lo specchio della sua società, sempre meno disposta a lasciar vibrare le corde del cuore, sempre più incline a soffocar ogni turbamento; una società dove tutto viene regolato da una logica tecnicistica, dove l’emozione è rigettata, la sensibilità svilita.

Di quel processo chimico, dal nome morbido e liquido, chiamato “fotosintesi clorofilliana” che tutti, dico tutti, abbiamo imparato a scuola e che da questa r iemerge, nei più è rimasto solo il nome. Pochissimi ne hanno fatto proprio il messaggio, custodito in quella legge naturale voluta dal Creatore per il bene dei suoi figli: le piante producono ossigeno e senza l’ossigeno il pianeta tutto, uomo compreso, soffoca e muore.

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