Domenica 12 e lunedì 13 giugno sono date da segnare in rosso sul calendario, da ricordare. I quattro quesiti referendari sui quali siamo chiamati ad esprimerci hanno infatti uno spessore diverso e nuovo, perché hanno avuto la capacità di suscitare forze fresche nel Paese e di dare fiducia a una nuova voglia di cittadinanza attiva e responsabile, che in questa occasione si è messa in gioco come non si vedeva da troppo tempo. Ricordando che la consultazione ci propone due quesiti altrettanto importanti, sulla cancellazione della follia nucleare dal nostro futuro e sull’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (con il sì viene cancellato il «legittimo impedimento»), concentro il mio ragionamento sui motivi del Sì ai due quesiti sull’acqua. L’obiettivo della grande mobilitazione popolare in corso ormai da alcuni anni è impedire la cessione forzata a soggetti privati di quote determinanti della gestione del servizio idrico integrato (cioè il complesso percorso che ci porta l’acqua in casa e la re-immette poi depurata nell’ambiente). Su questo aspetto si sofferma il primo quesito referendario, mentre l’obiettivo del secondo è impedire che ai privati sia garantito un guadagno del 7% annuo sul capitale investito, che appesantirebbe la nostra bolletta senza essere collegato alla qualità del servizio erogato né agli investimenti messi in campo. La legge Ronchi, che i due referendum vogliono cancellare in alcune parti, è una legge imposta dal Governo, umiliando le comunità locali, che non consente di distinguere fra buone e cattive gestioni, che impedisce di valorizzare le tradizioni di buona amministrazione di molti territori, la loro capacità di autogestione, l’efficienza e la qualità del servizio reso ai cittadini, l’economicità delle tariffe, la possibilità di reinvestire interamente gli utili a servizio della comunità locale. Una legge che sottrae alle comunità locali la possibilità di decidere come gestire un bene che è naturalmente di loro esclusiva competenza, un elemento essenziale per la vita come l’acqua, che non è mai riducibile a una merce, perché è un diritto umano e un bene di tutti, oltre ogni forzatura legislativa che voglia sottometterlo alle «sacre leggi” del mercato. Un mercato e una concorrenza che poi nella realtà non ci potrebbero essere, per il semplice fatto che la rete idrica è una sola. In questi casi si parla appunto di «monopolio naturale», nel senso che per la natura stessa del bene e del servizio che consente ai cittadini di fruirne, il fornitore non può che essere unico. Mentre a Parigi l’acqua è tornata pubblica dopo decenni, noi abbiamo già in casa o fuori dalla porta le stesse multinazionali francesi estromesse dalla capitale transalpina, pronte ad appropriarsi insieme ad altri soggetti - privati o parapubblici - della golosa opportunità di business offerta dalla legge Ronchi. Opporsi a questo scenario, votando due sì, significa anche dire sì a un concetto più ampio di cittadinanza. Dico questo perché il voto referendario rappresenta certamente un punto d’arrivo, ma è allo stesso tempo un punto di partenza. Un voto ottenuto grazie alle firme di un milione e quattrocentomila cittadini (cifra mai raggiunta prima in Italia), molti dei quali attivi in una miriade di comitati locali, a titolo gratuito e senza colorazioni di parte, che si sono poi coordinati a livello regionale e nazionale con tutta la fatica di chi non si occupa abitualmente di queste cose. Un appuntamento osteggiato fin dall’inizio, collocato dal Governo a metà giugno, sfruttando l’ultima data utile prevista dalla legge anziché unirlo alle elezioni amministrative, buttando così dalla finestra qualche centinaio di milioni di euro. Una decisione insensata, che in un periodo di crisi come quello che stiamo attraversando dice chiaramente l’interesse del potere centrale a sottrarre ai cittadini il controllo diretto su una risorsa inestimabile e strategica, non a caso chiamata da tempo «oro blu» per la sua potenzialità di sostituirsi al petrolio nel determinare gli assetti mondiali nei prossimi decenni. Nel Lodigiano i cittadini e le istituzioni avevano già detto no, con un percorso lungo e partecipato, allo scenario che la legge Ronchi ha imposto. La costituzione di SAL (Società Acqua Lodigiana) come gestore unico e interamente pubblico del servizio idrico nella provincia di Lodi (voluta all’unanimità dai 61 Comuni indipendentemente dal colore politico), l’unificazione progressiva del servizio e della sua gestione, la programmazione di investimenti importanti per il miglioramento della rete e del servizio sono passi che esprimono la compattezza di un territorio e la cura per i beni comuni che la nostra terra custodisce. Tutti passaggi importanti, nella direzione di un vero cambiamento di prospettiva: la riappropriazione della responsabilità sui beni comuni da parte delle comunità locali, che richiede una crescita continua del livello di partecipazione e di controllo democratico da parte dei cittadini. Sono ancora da inventare, anche mettendo in campo la giusta “creatività istituzionale”, gli strumenti che consentano ai cittadini di esercitare effettivamente questo controllo, anche mediante la gestione diretta attraverso forme societarie innovative (azionariato popolare, consorzi, consulte), partecipate dal basso, dai cittadini appunto, che da semplici fruitori di un servizio diventano direttamente «custodi» di un bene di tutti. A sostegno di questa prospettiva va reinterpretato l’articolo 43 della nostra Costituzione, finora inattuato, che prevede che la gestione di determinati beni possa essere riservata ai cittadini: l’acqua e gli altri beni comuni (ambiente, aria, territorio, rifiuti, energia, reti e infrastrutture fisiche e telematiche; ma anche salute, istruzione, servizi sociali, cultura…) rientrano a pieno titolo nel suo campo di applicazione: «A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale». Certo, per essere all’altezza delle responsabilità che la piena attuazione dell’articolo 43 comporta è necessario un senso di responsabilità diffusa e di cittadinanza attiva che in Italia è storicamente carente, invertendo la tendenza a delegare ai soli politici di professione le decisioni che riguardano ciò che è pubblico (che significa “di tutti”, non “di nessuno” per il fatto di non essere privato) e la sua gestione. È esattamente questa la sfida che ci attende, un compito che interpella soprattutto le generazioni più giovani, un processo irreversibile e irrinunciabile se vogliamo vivere in una democrazia matura, una nuova stagione che i referendum del 12 e 13 giugno sono in grado di inaugurare e di sospingere lontano.
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