Scuola: no alla politica degli annunci

Se c’è un problema che più di ogni altro deve preoccupare la nostra società, quello è il fenomeno dei «Neet» ovvero di quei giovani che non studiano e non lavorano e dei quali abbiamo purtroppo il poco invidiabile primato in fatto di presenze. Un fenomeno in preoccupante crescita e la scuola ha le sue specifiche responsabilità. Vediamo perché. A ricordarcelo sono gli ultimi dati Ocse dai quali emerge uno spaccato della scuola italiana che se per alcuni versi è positivo, per altri, invece, presenta dati che devono preoccuparci non poco. Non è solo una questione di vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto a seconda che uno sia ottimista o pessimista. Qui il problema è un altro. Qui si parla di una società che accentua le differenze sociali e culturali e che rischia di trascinare dentro questo «buco nero» anche la scuola. Alcune domande sono legittime. Ci dobbiamo o no preoccupare quando veniamo a sapere che siamo un Paese dove abbiamo un alto tasso di abbandono scolastico specialmente in alcune regioni del nostro meridione? Dobbiamo forse continuare a ignorare che siamo un Paese dove cresce paurosamente la differenza socio-economica dei nostri giovani una volta usciti dalla scuola? Deve o no preoccupare il dato che siamo il Paese europeo con meno iscritti alle Università e con meno laureati? Ci stiamo avventurando su un brutto crinale. Eppure siamo di fronte a un paradosso. Il nostro sistema formativo, infatti, viene riconosciuto come una preziosa opportunità in fatto di integrazione sociale che però, checché se ne dica, non consente ai nostri ragazzi di raccogliere risultati una volta usciti dalla scuola. È come dire che i processi di integrazione e di inclusione consentono ai nostri ragazzi di raggiungere un buon livello di preparazione e di accoglienza che non si tramuta, però, in preziosa opportunità di affermazione e personale e professionale. Sono problematiche che se non opportunamente affrontate, rischiano di far scivolare la nostra scuola a un livello infimo. Per risalire la china occorre un solo dato: maggiori investimenti. La scuola deve tornare ad essere il punto focale dello sviluppo sociale, economico e culturale del Paese e mentre la politica deve riappropriarsi del suo ruolo di progettualità economica, sociale e culturale, i politici devono badare meno alle ambizioni e più alle idee, meno al dilagare degli egoismi personali e più a interpretare i diversi interessi della nostra complessa società. La legge 107/15 ha visto approvare recentemente i decreti delega attuativi e questo rappresenta indubbiamente un grosso passo in avanti verso una scuola più attenta al suo specifico compito, un banco di prova se non un punto di forza che vede interpretare positivamente le tante aspettative di chi vive sulla propria pelle il mutare delle esigenze formative, didattiche ed educative. Ora però occorrono i fatti e questi richiedono appropriati investimenti se si vuole essere credibili. Occorre promuovere un’adeguata inclusione scolastica dei nostri 260 mila studenti disabili con opportune risorse professionali; occorre innescare un reale processo di integrazione delle migliaia di studenti che vivono ai margini dell’interesse formativo pronto a trasformarsi in abbandono scolastico; occorre potenziare il rapporto della scuola con la realtà imprenditoriale e il mondo del lavoro per evitare che i nostri studenti, diplomati e laureati, scappino all’estero a fare i camerieri nei pub; occorre rilanciare il rapporto con l’Università che non vuol dire preoccuparsi del numero di matricole iscritte, ma portare i giovani a terminare gli studi in una realtà accademica sensibile alle effettive esigenze professionali così come richiesto dalla nuova realtà lavorativa. Come si vede è uno spaccato di scuola che cambia e che non può sorprendere impreparati il mondo della politica che pure ha dato una nuova impostazione con i recenti decreti delega. Le polemiche che hanno accompagnato la recente approvazione degli otto decreti sono un campanello d’allarme a cui va prestata la massima attenzione. La scuola rappresenta un baluardo a difesa dei disastri che sta creando attualmente la società con il preoccupante affermarsi delle diseguaglianze sociali e delle differenze comunitarie. Quel baluardo che nel passato ha permesso a tanti giovani come me, figli di contadini e comunque espressione di famiglie dalle umili origini, di studiare, di iscriversi all’università, di laurearsi e di contribuire a dare un senso all’opera professionale intrapresa. E’ questo uno dei principi cardine su cui si fonda il dettato costituzionale e che vede la scuola come sua privilegiata interprete. Ecco perché la politica e con essa i politici devono allontanarsi dalla ricerca del potere per preoccuparsi delle finalità e delle esigenze nella gestione del potere. L’imposizione di un dominio e la manifestazione di un servizio sono espressioni antitetiche, non possono e non andranno mai d’accordo. Ricordo gli anni in cui un grande statista come è stato l’indimenticabile Aldo Moro a tal proposito parlava di partiti di idee e lamentava il mancato passaggio dai partiti di potere ai partiti di programma e questo in un periodo in cui prendevano piede le scuole di politica, scuole che oggi, purtroppo, non esistono più. Ma questo non vuol dire sentirsi liberi di interpretare in maniera ondivaga i reali problemi della scuola italiana, quelli che abbracciano l’intero arco formativo che vanno dalla variabile dell’acquisizione delle competenze a quella della conoscenza, dai problemi legati alla professionalità dei docenti, ai problemi educativi che nelle scuole trovano maggiore risonanza. Qualcosa si sta muovendo e su questo qualcosa si pongono, ora, tutte le attenzioni per il futuro della nostra scuola. Sono stati annunciati qualificanti investimenti sull’adeguamento di attrezzature tecnologiche, sul rinnovamento della classe docente, sull’ampliamento dell’offerta formativa tesa ad arricchire competenze teoriche e pratiche dei nostri studenti, sui progetti di alternanza scuola-lavoro, su specifici progetti di internazionalizzazione, su processi formativi post diploma e sull’Università. Sono tutti aspetti fondamentali del nostro sistema scolastico che se perseguiti condurrà sicuramente a un’inversione di tendenza con ricadute sulla formazione degli studenti. Il problema se mai è un altro. Speriamo di non essere di fronte alla solita politica degli annunci, alle tante parole gettate nella mischia che però sono lontane dalla soluzione dei problemi. La scuola non ha bisogno di parlatori, a ricordarcelo è il grande filosofo e pedagogista francese Jean-Jacques Rousseau: «Le persone che sanno poco sono solitamente dei grandi parlatori, mentre gli uomini che sanno molto, dicono poco». Absit iniuria verbis!

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