SANT’ANGELO «Picchiata in casa per vent’anni»

Una mamma trova il coraggio di raccontare la sua vita da incubo, ora il marito è a processo

In casa c’era un codice tra madre e figli. Perché quando papà tornava a casa e sembrava un’altra persona, l’unica cosa da fare era mettersi in salvo, anche chiudendosi in bagno e spegnendo la luce, «come una bambina, perché così mi sentivo quando scappavo con la speranza che tutto andasse bene». A parlare è una donna di Sant’Angelo Lodigiano, moglie e madre, vittima di violenze per anni da parte del marito. Oggi ne è uscita - ed è in corso un processo - , ma la sofferenza è ancora tutta lì. «Come si fa a voltare pagina dopo aver passato vent’anni così? Come si fa a farlo se sai che per colpa tua, perché non hai trovato il coraggio di uscirne prima, sono i tuoi figli a pagare le conseguenze?». Una testimonianza forte - in cui omettiamo le informazioni che potrebbero consentire l’identificazione della vittima - che la donna ha affidato a «Il Cittadino», in un incontro virtuale sulla piattaforma Zoom giovedì sera, organizzato dal circolo barasino di Fratelli di Italia. «Quando siamo venuti a conoscenza della sua storia - spiega il presidente di circolo Eugenio Carriglio insieme a Maira Bullegas - e della sua volontà di parlarne, con una forma di tutela sull’identità, abbiamo pensato di coinvolgere «Il Cittadino» per spronare altre donne a trovare il coraggio di denunciare». La testimonianza parte dalla conoscenza con il marito - «avevo 28 anni, sono sempre stata una donna di fede e volevo solo una famiglia» - e dal primo episodio di violenza.

«Ero incinta al settimo mese, ma ancora non avevo capito che faceva uso di cocaina, non avevo mai avuto un approccio con la droga - ha raccontato - : sono fuggita quella notte e sono andata dai miei genitori, ma ero incinta e tutte le persone che avevo intorno mi dicevano di tornare a casa e l’ho fatto». L’episodio, però, non è rimasto isolato. «Ne sono seguiti altri e a alle botte si è aggiunta la violenza sessuale, ripetuta. Quando una persona entra nel ciclo della violenza, è come se fosse nel tunnel della droga. Non vedi una via d’uscita e hai vergogna, non riesci neanche a chiedere aiuto. Quando qualcuno vedeva i lividi, inventavo una storia. I carabinieri erano ormai di casa prima, per tutte le volte che erano dovuti intervenire. Tra le date che non dimenticherò mai c’è il 15 marzo 2015, quando è arrivato a minacciarmi con un coltello da cucina: era stata mia figlia di 9 anni a chiamare i carabinieri. E quando se l’è presa con mia figlia, e l’ha picchiata così tanto da farla stare in casa due settimane, ho chiesto aiuto al centro anti-violenza di Lodi. Sono stata anche in alloggio protetto, fino a che non è stato emesso un provvedimento di allontanamento per lui da casa e da Sant’Angelo. Inizialmente mi riempiva di soldi, cercando di convincermi forse a ritrattare. Oggi c’è il processo, ma non io riesco neanche ad andare in aula: ai miei figli dico che oggi sopravviviamo, perché possiamo finalmente respirare senza la persona che ci faceva del male».

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