Ricordiamoci di chi muore per l’Europa

L’Europa presenta una malattia grave che molto probabilmente peserà sulle prossime elezioni del Parlamento europeo di maggio. Tale malattia si chiama «populismo e pessimismo». Populismo e pessimismo sono due aspetti della stessa patologia: il primo si nutre delle paure nate dal secondo. Gli europei non credono più nell’Europa, giungono persino a temere l’Europa, i suoi valori, la sua identità, che viene negata in particolare nei suoi elementi cristiani. Eppure la tragica e più recente attualità dovrebbe ricordare agli europei che l’Europa resta un faro per l’umanità. Si muore ogni giorno in nome dell’Europa, per diventare europei o per raggiungere l’Europa. Per tante donne e uomini nel mondo l’Europa rappresenta il miglior mondo possibile, è una speranza. Per molti l’unica speranza. L’Europa è intesa come portatrice di pace, giustizia sociale, solidarietà, diritti umani, democrazia, rispetto di tutti; è vista tutto sommato anche per la sua discreta prosperità economica in un mondo di miseria. Ecco perché tanti uomini e donne nel mondo sono pronti a morire per l’Europa!Gli ultimi eventi in Ucraina - con manifestazioni ripetute durante tutto l’inverno, con tensioni, battaglie di strada, violenze di ogni genere, anche torture e numerosi morti - segnalano che l’Unione europea, pur con tutti i suoi limiti e le sue difficoltà economiche, per non parlare di qualche assurdità burocratica, più di vent’anni dopo lo smantellamento della Cortina di ferro e la fine dell’Unione sovietica, rimane un modello di umanità per le nazioni liberate dalla dittatura; un modello anche per quei Paesi che non sono ancora riusciti ad aderire all’Unione. Tra una Russia che resta imprigionata in un sistema di regime autoritario erede allo stesso tempo della vecchia Russia degli zar e del bolscevismo, e un’Europa democratica, dove le libertà fondamentali sono assicurate, gli ucraini invocano la prima delle libertà per un popolo: l’autodeterminazione. Per loro si tratta di orientarsi verso l’Europa. Guardiamo ora verso Lampedusa, isoletta italiana punto più meridionale d’Europa a pochi chilometri dall’Africa del Nord. Questa «porta dell’Europa» raccoglie le speranze di centinaia di migliaia di persone che, dopo viaggi allucinanti attraverso il deserto si ammassano in imbarcazioni pietose, vittime di trafficanti che sfruttano la povertà, per poi prendere il mare. Ma quanti di questi migranti non arrivano mai alla meta, trasformando il Mediterraneo in un cimitero? Nessuna statistica permette di saperlo con precisione. Però sappiamo che nessun ostacolo sembra impedire la partenza dei disperati: anche caso conferma come l’Europa è per tanti popoli una nuova opportunità, una speranza, un faro di civiltà, come a suo tempo affermava Papa Paolo VI. Perciò l’8 luglio 2013, dopo un nuovo dramma, Papa Francesco ha voluto svegliare le coscienze, denunciare «la globalizzazione dell’indifferenza», sottolineando la responsabilità degli europei in genere, e dei cristiani in particolare. I morti di Kiev e gli annegati nel Mediterraneo ci dicono che l’Europa deve assolutamente guarire dalle sue malattie, scuotersi di dosso il suo egoismo, per restare fedele al disegno dei suoi fondatori, così da ritrovare uno spirito vitale. Nel 2012, nell’attribuire il premio Nobel della pace all’Unione europea, il Comitato Nobel così giustificava la sua scelta: «Il lavoro dell’Unione europea è un simbolo della fraternità tra le nazioni». Anche da qui emerge la necessità di accogliere le grida delle vittime di Kiev e del Mediterraneo, e di curare l’Europa dal populismo e dal pessimismo, per tornare ad andare avanti senza paura: Giovanni Paolo II, un grande europeista, diceva infatti: «Non abbiate paura!».

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