Quelle storie dell’illegalità targata Cina

Una tragedia dei nuovi schiavi cinesi. Un qualcosa che, in queste proporzioni, non si era mai visto. Nel rogo del capannone di ieri a Prato si contano sette cinesi morti - cinque uomini e due donne, ma solo di una donna l’identificazione al momento è certa - due feriti in gravi condizioni, due lievi e un numero di dispersi che a lungo è rimasto incerto (il numero preciso degli occupanti non era infatti noto). Ma dopo una notte di lavoro da parte dei vigili del fuoco, si tende al momento a escludere di poter ritrovare altri cadaveri e il bilancio pare stamani definitivo. Domenica primo dicembre, alle 7 del mattino nella fabbrica-dormitorio cinese al Macrolotto, alla periferia di Prato, si è consumata un’ecatombe. Al momento non si esclude nessuna pista sulle origini del rogo e il capannone è stato posto sotto sequestro. Quella che emerge è una tragedia dei nuovi schiavi che nel capannone, come in tanti altri simili a Prato, lavoravano - la fabbrica era un “pronto moda”, una confezione tessile - e dormivano, in loculi in cartongesso dove hanno trovato la morte. La maggior parte degli occupanti del capannone, infatti, sono stati colti dalle fiamme nel sonno; chi ha potuto e non ha trovato le uscite ostruite dagli stracci e dal materiale delle lavorazioni tessili, è fuggito in pigiama. Fra le storie, quella di un bambino di appena quattro anni, anche lui nel capannone, salvato dalla madre poi ricoverata al Nuovo Ospedale di Prato dove poi il bimbo le è stato riaffidato. O ancora la storia del volontario dell’associazione carabinieri in congedo che ha dato l’allarme e si è precipitato nel capannone in fiamme riuscendo a portare in salvo due persone. Già nel pomeriggio di domenica, il vescovo di Prato, monsignor Franco Agostinelli ha lanciato un messaggio dai toni forti: “Sono sgomento di fronte ad una tragedia che ricorda i tempi della rivoluzione industriale. Eppure è avvenuta oggi, tra le strade delle nostre zone produttive, nella Prato civile ed evoluta benché morsa dalla crisi economica”, ha scritto, lanciando poi un monito accorato alla città e non solo. “Una parola si impone sulle altre: ‘basta!’. Per la nostra città è l’ora di mettere da parte posizioni ideologiche preconcette e tatticismi strumentali. È l’ora di una reazione unanime e di un soprassalto di umanità. ‘Basta!’ a situazioni di lavoro non degne dell’uomo e delle conquiste sociali degli ultimi decenni; basta all’illegalità, che troppo spesso combina insieme gli interessi immorali di molti pratesi e le attività disinvolte di tanti imprenditori cinesi; basta allo sfruttamento della manodopera immigrata cinese, anche quando assume i connotati dell’autosfruttamento. La Chiesa di Prato lo ha affermato con chiarezza da molto tempo”. Per monsignor Agostinelli attività repressiva e prevenzione non sono sufficienti: “Era - e da oggi lo è in modo ancora più stringente - ineludibile una nuova e coraggiosa politica (quella con la P maiuscola, se occorresse precisarlo) che non si attardi su quel che è stato fino ad oggi ma guardi al futuro, un futuro dove l’immigrazione non è più un’emergenza ma un dato strutturale con cui confrontarsi. Intendo una politica condivisa, da istituzioni, partiti, categorie sociali e associazionismo e che metta al centro i diritti, la giustizia e lo sviluppo. Ognuno deve tornare responsabilmente a fare la sua parte per il bene comune e impegnarsi per abbattere i muri dell’incomunicabilità tra cinesi e italiani”. Le parole del vescovo di Prato sono dirette agli imprenditori orientali che lavorano nella città toscana: “Avvertano l’imperativo morale del dialogo e si lascino aiutare a bonificare le imprese e il lavoro”. Ma anche a imprenditori e sindacati italiani: “Siano la prima linea di questa frontiera. La nostra grande Prato merita questo impegno. Ce lo impone ancora prima la nostra coscienza. I sette morti del Macrolotto 1 ce lo chiedono oggi e ne saranno monito futuro”.

© RIPRODUZIONE RISERVATA