Quarteroni: «Deve decidere la politica, ma la scienza va ascoltata»

Il matematico lodigiano fa parte del gruppo di cento scienziati che hanno chiesto misure più stringenti

Il matematico lodigiano Alfio Quarteroni, professore al Politecnico di Milano e al Politecnico di Losanna, non è nuovo ad una riflessione sul tema della pandemia da Covid-19. Non a caso nello scorso marzo l’accademico è stato tra i firmatari della petizione #fightCovid19 che sollecitava i cittadini a donare dati personali - relativi alle condizioni di salute o agli spostamenti fuori dall’abitazione - per aiutare la ricerca matematica e fermare i contagi.

Ora, con la seconda ondata che cresce, torna sul tema.

Tutti i giorni ci raccontano l’andamento dei contagi attraverso il numero di tamponi positivi: è davvero un dato utile per valutare l’evoluzione della pandemia?

«Non lo è, per molte ragioni. La prima è che sappiamo tutti quanto questo dato sia sottostimato: i tamponi li fanno ormai a poche persone rispetto a quelle che hanno sintomi evidenti. E di questo abbiamo tutti esperienza parlando con amici e conoscenti: sappiamo quanto sia difficile per l’Ats garantire tamponi per tutti, soprattutto nelle grandi città. Inoltre ci sono altri numeri importanti: quello degli asintomatici, degli ospedalizzati, delle terapie intensive, dei decessi. Tutti dati che ci arrivano da Regioni, Province, Ats senza un coordinamento temporale, quindi alcuni sono sfasati, e non c’è nessuna garanzia che raccontino la realtà così com’è. Detto questo, credo sia importante, al di là dell’analisi del dato, capire i tassi di variazione dei dati stessi. I matematici parlano di derivate, o meglio derivate di derivate. Questi tassi ci fanno capire la velocità e persino l’accelerazione con cui il fenomeno sta progredendo. Ci aiutano a capire se le curve esponenziali si fletteranno e quando lo faranno».

Si è vista in questi mesi una distorsione del rapporto tra tecnica e politica? Quali sono secondo lei i limiti di entrambe? Sono stati superati?

«Questa è una bella domanda. C’è stata una polemica legata agli scienziati o presunti tali che comunicano a volte in maniera apparentemente contraddittoria. In un tessuto sociale come il nostro, già poco disposto negli ultimi anni a dare rilievo a merito e competenza, questo genera in tanti l’idea che la scienza non sia utile. Bisogna fare un discorso chiaro: è bene che scienza e politica dialoghino, ma è doveroso che non escano dai rispettivi campi. Gli scienziati devono cercare di spiegare il fenomeno del contagio e la sua evoluzione, in maniera fattuale, sulla base dei dati. Sul Covid ci sono ancora tanti aspetti da capire, dal punto di vista biologico e clinico. In queste condizioni di incertezza, è chiaro che possono arrivare al grande pubblico dei messaggi diversi da parte degli scienziati perché non stiamo parlando di una scienza esatta. È quindi fondamentale la prudenza nella comunicazione, perché questi messaggi non sempre vengono recepiti in modo critico».

Oppure vengono strumentalizzati?

«Qui veniamo alla politica. La strumentalizzazione c’è, perché i momenti di grande incertezza offrono ai manipolatori terreno fertile, e non certo perché abbiano a cuore il benessere delle persone. Ma parliamo piuttosto della politica vera, quella chiamata a prendere decisioni, a tutti i livelli. Credo sia molto importante ciò che è stato fatto in Italia, ovvero istituire un Comitato tecnico scientifico autorevole. È importante che questo comitato sia in dialogo costante con il Governo, ma è fondamentale che i politici siano consapevoli che è loro la responsabilità di prendere certe decisioni, molte volte difficilissime, che inevitabilmente vanno a sacrificare determinati settori. Dialogo e cooperazione sono importanti, ma lo è altrettanto la distinzione dei ruoli»

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Quale contributo può dare la matematica in questo contesto? Esistono modelli matematici per valutare la situazione e stimare l’evoluzione dei contagi?

«Noi matematici elaboriamo i dati, e facciamo simulazioni per capire dove ci porterà questa crescita sulla base degli interventi operati, consapevoli che nessuno degli scenari è da prendere come oro colato perché, come ho detto, le incertezze sono tante. Non dirò i numeri, ma in questo momento posso dire che, a partire dai dati di domenica scorsa (prima delle misure dell’ultimo Dpcm), l’evoluzione da qui a un mese ci porterebbe a una situazione drammatica, probabilmente insostenibile a livello di strutture sanitarie».

Abbiamo letto la presa di posizione di cento scienziati, tra cui anche lei, che chiedevano misure più stringenti...

«È bene che si sappia: non abbiamo certezza che l’ultimo Dpcm generi un miglioramento significativo. Pensiamo alla scuola: per fare delle stime serie bisognerebbe sapere quanti sono i contagi all’interno della scuola, ma questo dato manca. Poi c’è la questione dei mezzi pubblici. Meno studenti sui mezzi avrebbero un beneficio sulla riduzione dell’affollamento, ma poi, il ragazzo che non va a scuola resta chiuso in casa? Probabilmente entrerà in contatto con i suoi coetanei, magari con meno precauzioni rispetto a quelle usate a scuola. Per ristoranti e cinema è ancora più complicato: c’è il rischio di usare un cannone molto grande per sparare a un pericolo, il contagio nei ristoranti, che magari non è così grande, penalizzando però duramente la categoria e il suo indotto, e togliendo uno svago alle persone in un clima già difficile».

Le variabili in gioco, quindi, sono troppe per riuscire a fare le scelte giuste?

Certo, sono tante e rendono difficile prendere decisioni efficaci. Però non vorrei che queste mie parole suonassero come una giustificazione incondizionata dell’operato del governo. Con tutte le attenuanti possibili, vi sono alcune evidenti responsabilità. Abbiamo sprecato mesi importantissimi in cui si poteva operare con maggiore visione e in maniera più razionale. Per esempio è incomprensibile che non si sia deciso per tempo di raddoppiare i trasporti scolastici; un altro limite è non aver pensato a un sistema di screening rapido nelle scuole. Abbiamo trascurato cose importanti per insistere su questioni marginali, talvolta in modo ridicolo a mio avviso, come per i banchi a rotelle. Immuni è un altro caso significativo: l’applicazione permette di capire se sei entrato in contatto con positivi, e lo fa benissimo. Ma a valle di questo, tutto il processo di tracciamento diventa manuale, e rende di fatto impossibile risalire rapidamente ai contatti. Se il processo fosse stato informatizzato, a fine estate avremmo potuto isolare i primi focolai, ma ormai con questi numeri non c’è alcuna possibilità di operare un tracciamento efficace. E poi c’è l’effetto placebo indotto da messaggi come quello del presidente Conte, che ha lasciato intendere che avremo i vaccini entro fine anno. Gli infettivologi a cui credo mi dicono invece che bisognerà aspettare almeno l’estate 2021. D’accordo rassicurare, ma questo può indurre a un pericoloso effetto di rilassamento pericoloso».

Quanto pericoloso?

«Ad aprile avevamo la prospettiva dell’estate, in cui la curva epidemica si flette naturalmente (per l’ esposizione ai raggi ultravioletti e la vita all’aperto che garantisce maggior distanziamento). Se ora dovessimo entrare in periodi di confinamento, avremmo davanti non due, ma almeno sei mesi di resistenza. La situazione è diversa perché abbiamo una conoscenza migliore del virus e un trattamento terapeutico che dà buoni risultati su diversi pazienti. E comunque abbiamo potenziato le terapie intensive. A mancare è stato l’irrobustimento dell’assistenza sanitaria sul territorio. Ma ritengo che il fattore più negativo sia questa prospettiva temporale completamente differente. Così possiamo pensare che i sacrifici non siano serviti a nulla».

Il nostro Paese, con le sue competenze, le sue imprese e i suoi cervelli, è in grado di affrontare quello che ci si prospetta?

«Sì, senza dubbio. Il problema è semmai di carattere culturale. In Corea, ad esempio, hanno tracciato il contagio con tecnologie che noi non abbiamo messo a punto, e non perché non ne saremmo in grado. Siamo tutti molto gelosi della nostra privacy e non abbiamo capito che qui non è questione di riservatezza, economia o salute: qui ci sono tante cose che devono armonizzarsi. Bisogna entrare nella logica di rinunciare a una piccola parte della nostra libertà. O non ne usciremo».

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