Quando “il padrone” si uccide

L’ondata di suicidi d’imprenditori di fronte al precipitare delle proprie aziende sta da mesi riempiendo le cronache, e non solo italiane, tanto da essere finita lo scorso 14 aprile in prima pagina sull’“International Herald Tribune”. Secondo la Cgia di Mestre, solo dall’inizio di quest’anno se ne contano 23; nove dei quali (il 40%) nel Veneto. Una sorta di “male oscuro” che tuttavia colpisce l’intero Nordest (anche se l’ultimo caso registrato è quello di un artigiano in Sardegna), patria delle piccole e medie imprese che per anni sono state il motore dell’economia e oggi si trovano strangolate tra imposte, ritardi nei pagamenti da parte dei clienti – e i crediti più elevati sono quelli nei confronti della Pubblica amministrazione –, banche che non concedono più finanziamenti o addirittura chiedono di rientrare nella linea di credito erogato, burocrazia farraginosa. Il fenomeno sta diventando vera emergenza sociale.

Non si può generalizzare perché ognuno di questi tragici episodi costituisce un caso a sé nel quale s’intrecciano vicende personali e familiari. Il movente non è unico, Certamente è primaria la crisi economica ma, soprattutto nella cultura del Nordest, vi è una fortissima identificazione tra la propria vita e il proprio lavoro, la capacità di realizzazione e di successo, la concezione dell’impresa come una sorta di ‘famiglia allargata’ verso la quale si avvertono forti responsabilità. Valori d’impegno e laboriosità di per sé positivi, ma che nel momento in cui salta l’azienda rischiano di far implodere anche la persona del titolare.

Dalle nostre parti è diffuso un grande senso di pudore che rende umiliante la manifestazione della propria difficoltà, vissuta come perdita di autorevolezza. Molti imprenditori che ho incontrato portano in sé una sofferenza acuta e sorda, ben peggiore di quelle che ho riscontrato anche in casi di gravi malattie, ma tentano di soffocarla con il rischio, in alcuni casi, di veri e propri cortocircuiti con conseguenze irreparabili. Il tessuto della nostra regione, inoltre, sviluppatosi molto velocemente, ha conosciuto una sorta di scollamento tra dimensione spirituale e materiale, schiacciandosi in una prospettiva ‘economica’ e di profitto troppo accentuata rispetto ad altre.

Il sistema penalizza severamente le piccole imprese, strangola davvero, soprattutto i piccoli, ma non si tratta solo di mancanza di una sana politica industriale. Sono venuti meno anche importanti valori come l’onestà e il dovere di pagare i debiti nei tempi concordati. Pur non negando le difficoltà causate dalla crisi, ritengo moralmente gravissima la scelta deliberata e strisciante di molti clienti di piccole aziende, ormai prassi diffusa e giustificata appunto con l’alibi della crisi, di dilazionare i pagamenti. Anche la Pubblica amministrazione ha al riguardo le sue responsabilità.

E’ anche venuta meno una rete sociale di solidarietà.

Certamente non c’è dappertutto il tessuto sociale necessario per svolgere un ruolo di sostegno e aiuto. In provincia di Padova questa rete esiste. Nel 2008 la Camera di commercio ha istituito un numero verde ‘anticrisi’ e poi ‘antisuicidi’. A questo si è aggiunta negli anni una rete territoriale di sostegno psicologico-economico-finanziario agli imprenditori in difficoltà, formata da diversi soggetti tra cui la Caritas diocesana. Nei giorni scorsi un gruppo di familiari di imprenditori suicidi ha fondato con alcune realtà l’associazione ‘Speranza al lavoro’, con un numero verde per l’ascolto e un pool di psicologi.

Lo schiacciamento sui valori materiali e quella diffusa ‘cultura’ che identifica il senso del sé con il successo porta senza dubbio a far perdere il significato di altri aspetti dell’esistenza e forse ad appannarne il valore. Quando tutto il mondo che ci si è costruiti sembra crollare si entra, pertanto, in un vortice di disperazione che appare senza scampo. Vorrei, però, citare la bella testimonianza di un imprenditore veneto che ha di recente spiegato come nella fede abbia trovato le motivazioni che lo hanno salvato dal suicidio.

Nel dopoguerra le persone erano, malgrado le privazioni, molto attaccate alla vita. C’era una speranza di futuro che oggi non si percepisce più.

Mancano reali prospettive di ripresa e crescita a breve termine, e il futuro è molto incerto soprattutto per i giovani, ma a me sembra che per molti sia inaccettabile l’idea di non poter più mantenere lo status precedente. Le difficoltà economiche ci sono e dureranno, ma rispetto ad altre aree del mondo rimaniamo comunque dei privilegiati. Non si può legare la speranza a questi aspetti: la speranza nasce nell’anima.

Oggi occorre anzitutto ridare voce all’anima; è necessario esprimere anche nelle difficoltà economiche quello che abbiamo dentro, i dubbi, gli interrogativi, i sentimenti più nobili che spesso, assorbiti dal vortice dell’attivismo produttivo, fingiamo di non sentire o tentiamo di tacitare.

Le nostre comunità ecclesiali dovrebbero forse avere uno scatto di fantasia per trovare spazi e momenti in cui imprenditori e artigiani possano esprimere l’impatto sulla propria coscienza di un sistema finalizzato solo al profitto. Un modo per sentirsi meno soli e rendere tutti capaci di autentica solidarietà.

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