Quale ruolo per la nostra agricoltura?

Il lavoro è diventato sempre più raro e introvabile e quasi tutte le economie sono in affanno. Bisogna capire perché questo accade e proporre soluzioni. Questo è stato lo scopo dell’incontro pubblico che ha avuto luogo a Codogno lo scorso 6 dicembre. Per me che sono un agronomo, è motivo di orgoglio professionale e di coscienza civica rispondere a una domanda basilare. Una domanda che è una sfida: può l’agricoltura giocare un ruolo per l’aumento dell’occupazione e il rilancio dell’economia?

Certo che può, ci sono le conoscenze e le potenzialità per farlo.

Ad esempio, sappiamo che un’azienda dedita alle produzioni vegetali impiega meno manodopera di una che alleva bestiame, e che parimenti un’azienda che coltiva mais richiede meno lavoro di una che coltiva prati o erbai. Questo semplice dato ci dice che gli attuali indirizzi produttivi delle aziende lodigiane, incentrati sulla monocoltura e le produzioni vegetali, deprimono l’occupazione e pertanto aggravano la crisi.

Il problema, a mio avviso, è di mantenere gli ordinamenti intensivi e confermare le stalle, recuperando in competitività.

La bassa efficienza è notoriamente il tallone d’Achille dell’agricoltura padana, che perde il confronto sia rispetto alla tipica azienda familiare dell’Europa centrale, sia rispetto alla grande azienda intensiva o estensiva degli Usa o del Brasile. In aggiunta, i prezzi da fame pagati ai produttori mandano in rosso i bilanci aziendali e fanno perdere altri occupati.

L’agricoltura biologica può dare un significativo contributo per stimolare l’occupazione, perché le sue tecniche assorbono più manodopera, soprattutto per i giovani e le donne. Avanti dunque con il biologico, cercando però di non perdere la faccia, come è accaduto recentemente per grosse partite di prodotti avariati o di pessima qualità immesse sul mercato. Naturalmente non sono in grado di quantificare i vantaggi occupazionali acquisiti secondo gli ordinamenti produttivi, ma se mettiamo degli studiosi intorno a un tavolo, i dati saltano fuori.

Parlare di agricoltura biologica non ci deve spingere però a sottovalutare quella convenzionale, che impegna la massima parte delle superfici coltivate, mentre il biologico è solo il 10%.

Non è vero che l’agricoltura convenzionale inquina o fa danni all’ambiente. Chi lo afferma non è sicuramente un agronomo o non conosce il mestiere dell’agricoltore. Questo tipo di agricoltura, nella sua forma cosiddetta razionale o integrata, è capace di conseguire spettacolari incrementi nelle produzioni unitarie e di conseguenza può dare un suo contributo al rilancio dell’occupazione.

La cosa più importante è giocare in difesa, cioè cercare di non perdere la dotazione di terreni di cui essa dispone. Questo si verifica tutte le volte che la mano dell’uomo cementifica i suoli, obbligando le aziende a chiudere, con conseguente espulsione di forza-lavoro dal mondo agricolo. Insomma, se non possiamo aumentare in modo significativo i livelli occupazionali in agricoltura, cerchiamo almeno di non farli diminuire.

Un altro fronte critico è quello dell’industria alimentare, di cui il Lodigiano offre un quadro sconsolante, perché trasforma in modesta misura la produzione lattiera lasciando che siano altri territori a beneficiare dei vantaggi in termini di valore aggiunto e di lavoro. Prospettive non meno inquietanti si aprono per la lavorazione delle carni. Ci vuole un serio potenziamento dell’agro-industria lodigiana, nel cui ambito la Polenghi dovrebbe diventare la punta avanzata, mente è oggi trascurata e destinata a una non lontana dismissione.

In conclusione, il Lodigiano ha le potenzialità per stimolare l’occupazione, con la sua dotazione produttiva di tutto rispetto: 1500 aziende agricole collegate a più di 200 attività industriali. Basta crederci e pensare che in ogni caso la terra va risparmiata e non depredata.

Alcuni studiosi sono infatti del parere che questa crisi è permanente e irreversibile. Insomma, non è del tutto improbabile per le future generazioni un ritorno alla cascina.

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