È preferibile tutelare le ragioni del lavoro o quelle della salute pubblica? È meglio orientarsi su un corretto scorrere dell’economia, o preferire le richieste dell’ecologia? In un mondo normale, questi aut-aut non dovrebbero semplicemente esistere, perché la soluzione migliore è – ovviamente – sempre l’et-et: far in modo che l’ambiente di lavoro non sia nocivo né per chi lo frequenta né per il territorio circostante; mediare le esigenze dell’economia con quelle dell’ecologia. Il problema si pone laddove queste logiche, per vari motivi, non sono state seguite: l’esempio dell’Ilva di Taranto è quello più in vista nelle cronache attuali, ma tanti altri esistono in varie parti d’Italia. Nella città pugliese l’acciaieria fa vivere migliaia di famiglie; nel contempo, avvelena l’ambiente circostante – lo stabilimento è a due passi dalla città e da anni si lamenta la pericolosità per la salute della popolazione. Un incancrenirsi della situazione che ha portato agli sviluppi attuali: la magistratura che decreta lo stop della produzione; una città che in parte esulta e in gran parte piange: con l’acciaio se ne andrebbe pure il pane per troppe famiglie in un contesto economico che certo non permette di intravvedere alternative occupazionali. Ma queste fabbriche figlie di un altro tempo, in cui si pensava che posizionarle a ridosso di una città sarebbe stato la fortuna della stessa, esistono in molte altre parti d’Italia: si pensi all’ormai ex petrolchimico di Marghera, a due chilometri dai 150mila abitanti di Mestre; alle acciaierie di Cornigliano, a Genova; alla raffineria alle porte di Mantova; all’ex Italsider di Bagnoli, a Napoli, il cui sito è ancora zeppo di veleni… Solo col tempo si è capito il grave errore di creare mega-industrie assai poco salubri ad un tiro di schioppo dalle città. In certi casi la deindustrializzazione italiana degli ultimi anni ha (purtroppo) risolto il problema; ma rimangono ancora situazioni come quella tarantina dove il dilemma appare atroce: perché chiudere l’acciaieria bonificherebbe sicuramente l’aria atmosferica, ma avvelenerebbe irreparabilmente l’aria sociale di una città ricca a quel punto solo di disoccupati. Per non parlare del dilemma che in altre zone d’Italia si crea tra lavoro e ambiente quando si ragiona su nuove iniziative: fare o meno un rigassificatore nel mare prospiciente a Brindisi? Riconvertire o chiudere la grande centrale elettrica ad olio di Porto Tolle, nel Parco del Delta del Po? Realizzare o meno quegli inceneritori di rifiuti che eliminerebbero le discariche ma che sono accusati di avvelenare l’aria? E la desiderata-contestata autostrada della Maremma? E le pale eoliche che fanno energia pulita e bruttezza paesaggistica? E i pozzi di metano di fronte alle coste adriatiche? Per non parlare di quanto sta accadendo in Val di Susa per la Tav. Tutte occasioni di sviluppo economico e di nuovi posti di lavoro. Tutte situazioni di possibile danno ambientale, o addirittura di probabili conseguenze negative per la salute pubblica. Non esiste, in queste situazioni, la risposta impeccabile, la scelta perfetta. Qui siamo di fronte di nuovo a degli aut-aut. Anche se non è difficile prevedere che, con questi chiari di luna, si privilegeranno le ragioni dello sviluppo economico. Per i casi come Taranto, ben venga l’azione della magistratura se questa porta a smuovere acque da troppi anni stagnanti; basta che quest’azione non crei alla fine più danni di quanti intenda evitare. Comprensibile quindi il ricorso del Governo alla Corte costituzionale. Con un po’ di buonsenso e di buona volontà da parte di tutti si può arrivare ad un auspicabile salvataggio congiunto di capra e cavoli. Anzi, si deve.
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