Il nostro è uno strano Paese dove si mescolano senza tanti problemi valori e disvalori, morale e immorale, diletto e sofferenza senza che nessuno si preoccupi delle derive dovute al superamento dei limiti che tali sentimenti accompagnano. L’ultimo esempio in ordine di tempo lo abbiamo avuto la scorsa settimana con l’aggressione, ad opera di ignoti, subita dalla mia collega dell’Istituto Comprensivo “Guido Galli” di Viale Romagna a Milano. La sua colpa? Voler fare la Preside. Al momento si sa che uno sconosciuto entrato nel cortile la aggredisce alle spalle e al grido «te ne devi andare» la spinge per terra, assestandole un pungo in faccia. Le grida attirano il personale che la soccorre e l’accompagna in ospedale per le prime cure mediche. Questo in estrema sintesi il fatto ciò che invece conviene approfondire sono le tensioni che lo hanno generato. La collega Anna Lamberti è al suo primo anno di presidenza dopo vari anni da insegnante in alcune scuole milanesi. Il suo arrivo al “Guido Galli” è tra i più difficili. Ai dialoghi faticosi si alternano scontri e tensioni tra lei e i genitori che si attivano con lettere di protesta in provveditorato. Un battesimo di fuoco il suo. Non molto diversi i rapporti con docenti e personale. A sentire alcune testimonianze riportate sul “Corriere della sera”, l’applicazione puntuale di norme e regolamenti scolastici ha alimentato questo clima teso e foriero di grigi presagi. Mi par di capire che prassi consolidate nel tempo siano state messe in discussione e azzerate senza tentennamenti. Tuttavia negli ultimi tempi è stata registrata una significativa ripresa del dialogo grazie anche a un confronto più pacato tra le parti. Un clima sereno in costante miglioramento tanto da far dire alla portavoce dell’associazione dei genitori, che l’episodio è «un atto incivile estraneo alla filosofia dell’istituto che promuove il confronto, che può essere acceso, ma mai irrispettoso, figuriamoci violento». Intanto una lettera di protesta firmata da 40 dirigenti di Milano viene inviata al Ministro Giannini: «Non si può lavorare in trincea con mille scadenze e difficoltà e poi essere lasciati soli alla mercé di violenze private, fisiche e morali». Immediata la risposta del Ministro che parla di «fatto gravissimo da condannare senza indugi. Ma è un fatto che impone anche una riflessione. Quando nella Buona Scuola parliamo di istituzioni scolastiche collegate al territorio è proprio questo l’obiettivo che ci poniamo: rendere la scuola, la comunità di tutti, un centro civico aperto. Per raggiungere l’obiettivo non bastano le leggi, non bastano le parole dei Ministri e non basta neppure aumentare semplicemente risorse e personale. Serve la collaborazione di tutti. La scuola non appartiene al Ministero, al governo, ai dirigenti, agli insegnanti, agli studenti. Appartiene a ciascuno di noi e ciascuno di noi deve averne cura e rispetto. Ad Anna Lamberti rivolgo la nostra solidarietà e la nostra vicinanza. E le prometto: a scuola nessuno dovrà restare solo». Solidarietà anche dal Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale della Lombardia Delia Campanelli: «siamo vicini alla dirigente Anna Lamberti. Nessuno dovrebbe mai essere aggredito sul proprio posto di lavoro, nessun rappresentante dello Stato, nell’esercizio delle proprie funzioni, dovrebbe essere bersaglio di aggressioni». Purtroppo aggressioni a presidi e insegnanti oramai non si contano più. «Quando è rientrata a scuola sembrava molto spaventata» commenta una mamma. La paura, dunque, prende il sopravvento? E poi paura di chi? Simili espressioni alimentano solo un clima insopportabile, come insopportabile è il senso di vittimismo che a volte viene attribuito a chi è impegnato in processi educativi. Ma è proprio questo clima di paura che crea un senso di debolezza. La scuola non può essere paragonata a una trincea dal momento che questa finisce per evocare un quadro bellico, ma insegnanti e presidi non sono in guerra, proprio perché questo scenario può giustificare, per assurdo, quel senso di vittimismo che non ci appartiene. Ricordare di tanto in tanto episodi di violenza nelle nostre scuole ai danni di insegnanti e presidi non sono pari a litanie per i torti sofferti o subiti. Non dimentichiamo mai quello che effettivamente sono questi episodi. Sono episodi frutto dell’ignoranza e della mancanza di rispetto e riconoscimento di un ruolo nella società: il ruolo di educatori. Compito arduo e difficile. Personalmente non mi sento di vivere in trincea, né vivo in uno stato di paura, di spavento o di debolezza. Insulti e aggressioni non vanno banalizzati, ma non vanno nemmeno rendicontati come fossero azioni di comportamento tali da condizionare un preside nell’esercizio delle sue funzioni. Siamo consapevoli che insegnare l’educazione non è come insegnare ad andare a cavallo. A dare forza agli educatori, siano essi a scuola o a casa, all’oratorio o in un gruppo sportivo è la cultura della passione e del desiderio di contribuire a formare le nuove generazioni. Non solo. Siamo noi stessi in quanto educatori consapevoli che viviamo un ruolo sociale più grande e più nobile di qualsiasi altro ruolo; siamo noi stessi che non dobbiamo cedere alla ribellione certamente alimentata dalla rabbia di subire offese, affronti e ora aggressioni che fa di noi educatori una classe speciale. La ribellione vissuta come umana reazione contro una società che ti definisce sceriffo o despota, monarca o dittatore può facilmente condurre verso risentimenti e frustrazioni, ma anche verso scelte innaturali come chiudersi in una «turris eburnea» o sentirsi come topi impauriti dentro le mura scolastiche, scegliendo di scostarsi dalla comunità che ti circonda. Questo non fa parte della nostra cultura poiché, come ben sottolinea il Ministro Giannini, si scontra contro il più naturale obiettivo «rendere la scuola, la comunità di tutti, un centro civico aperto». Meglio affrontare la realtà vissuta con gioia di dare il meglio di se stessi, creando condizioni educative di meraviglia e stupore. Intanto è notizia di questi giorni che a Macerata un genitore denuncia ai carabinieri la preside dell’istituto superiore frequentato dal figlio per un brutto voto in un compito: Cinque. Come sono cambiati i tempi. I miei genitori quando prendevo cinque ringraziavano e io facevo salti di gioia. Erano voti di attesa. Una specie di avvento scolastico prima dei voti belli.
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