Posti di lavoro e muri di gomma

In questo inizio di 2012 di crisi, di disoccupazione, di lotta all’evasione, di semplificazione, di incentivi alla crescita, di aiuto alle piccole e medie imprese ma non (come speravo) di tassa patrimoniale io che, anche sorridendo, fatico a chiamarmi imprenditrice, e che, molto più semplicemente, sono il 50% di una piccola libreria di provincia, vorrei raccontare una altrettanto piccola storia “kafkiana” che mi ha visto, mio malgrado, protagonista. Il tutto risale solo a qualche settimana fa e la vicenda è banale nella sua semplicità: come ogni anno, la libreria, in vista del periodo natalizio, apre dei rapporti di collaborazione della durata inferiore ai 30 giorni. Quest’anno la novità è stata quella di avere scelto come collaboratore anche una persona extracomunitaria: ventenne, in possesso di regolare permesso di soggiorno, di documento di identità, di codice fiscale, residente in Italia e iscritto all’università, bravo, simpatico, perfettamente “padrone” della lingua.

E allora, dove sta il problema, in questo Paese che favorisce – si fa per dire – l’intraprendenza e la laboriosità degli stranieri regolari e la buona volontà – si fa per dire – degli imprenditori che desiderano agire in modo regolare e trasparente? Il problema sta nel fatto che, mentre per gli altri collaboratori documento di identità e codice fiscale sono più che sufficienti per la stipula del contratto di collaborazione, in questo caso ci vuole molto di più. L’ho scoperto “rimbalzando” per giorni contro il muro di gomma di norme insensate e, a mio parere, discriminatorie, certamente frustranti, e probabilmente immotivate senza riuscire a trovare il bandolo della matassa ma, come se si trattasse di una sfida, con l’intenzione di scovare una via d’uscita.

Nel caso di persona extracomunitaria con permesso di soggiorno rilasciato per motivi di studio è necessario che la collaborazione non ecceda le 20 ore settimanali di lavoro e per me nessun problema, anzi, e che la sottoscritta – datore di lavoro, ovvero committente dei “pacchetti regalo” che rappresenteranno la gran parte del mansionario – si assuma l’impegno a sostenere gli (eventuali) costi di rimpatrio (!) del lavoratore straniero nel caso commetta un reato che lo prevede come pena accessoria. Qui faccio più fatica a capire ma faccio finta vada bene pure questo e mi adeguo.

Però non è finita: mi viene fatto notare che, nel caso in cui mi sono avventurata, è pure necessario presentare la “certificazione della conformità alloggiativa”. Sembra uno scherzo e invece non lo è: una persona straniera non può lavorare in Italia se non dispone di un certificato di conformità, rilasciato dalla ASL locale, che attesta come il suo alloggio sia “a norma” con riferimento alle disposizioni in tema di fumi della caldaia, conformità dell’impianto elettrico e di riscaldamento. Non male, si potrebbe pensare, finalmente delle disposizioni tese a verificare che lo straniero non viva in uno scantinato, in un tugurio, su un’auto. Peccato solo che, a parità di condizioni – vivere in uno scantinato, in un tugurio, su un’auto – un cittadino italiano o comunitario possa comunque lavorare (e magari grazie al suo lavoro uscire dalla cantina) e un extracomunitario no.

Semplicemente, niente conformità abitativa, niente lavoro. Ho addirittura pensato a un “escamotage” (all’italiana) che potrebbe non farmi onore ma che pur rappresenta uno sforzo di fantasia: “Lo faccio risultare occasionalmente domiciliato a casa mia!” ma non si può neppure questo: le leggi italiane conoscono gli accorgimenti italici e, infatti, la legge in questione prevede che, in questo caso, anche la mia casa debba essere certificata e i tempi non me lo consentono.

Non trovo le parole per definire tutto questo ma mi piacerebbe capire ciò che continua a sembrarmi incomprensibile e inaccettabile, seppur perfettamente “normato” e legale.

P.S. la fortuna mia e del mio collaboratore è stata scoprire la possibilità di attivare un rapporto di tirocinio grazie alla consulenza e all’impegno profuso, a tempo di record, dagli addetti del “Centro per l’Impiego” locale, dipendenti pubblici che hanno fatto il loro lavoro nel modo migliore possibile, in barba all’ex ministro Brunetta.

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