Perché abbiamo bisogno di un selfie?

“L’Italia è il paese con il più alto numero di selfie in rapporto alla popolazione. Nel 2016 sono morte 68 persone nel tentativo di un autoscatto. Cause principali: affogamento, armi da fuoco, mezzi di trasporto. Nel 2013 a Piacenza un gruppo di ragazzi scatta un selfie con Papa Francesco: è il primo con un Papa. Non solo: il 19 dicembre su Rai 3 verrà trasmesso il documentario ‘Un selfie con il Papa’ che raccoglierà foto e video dei fedeli”.Questi dati, raccolti con altri, da Laura Aguzzi sono pubblicati sul settimanale di un quotidiano nazionale di questi giorni.Il selfie, un termine comparso per la prima volta nel 2002, indica un fenomeno che sta quasi nascosto dentro molte notizie di nera e di bianca. Nascono diverse domande sul perché di una crescita che vede protagonisti anche gli immigrati che sono nelle nostre città. Eccone alcune: per conservare una traccia ininterrotta della propria vita, per autocontemplazione, per avere una propria immagine da trasmettere ad altri, per gioco o per inaugurare una nuova arte?Le domande si trasformano però in preoccupazione nel leggere una cronaca nera che riferisce di tristi vicende provocate dall’uso sconsiderato degli autoscatti.Le domande entrano a questo punto nell’ambito dell’educazione perché sono soprattutto gli adolescenti a essere coinvolti. Per loro, afferma lo psicanalista Alberto Rossetti, si tratta di “una nuova modalità di rapportarsi con la propria immagine che viene condivisa all’interno di una rete ampia che dura tutta la vita” e inoltre, come altre tecnologie della comunicazione, i selfie permettono di costruire relazioni che non si avrebbero nella quotidianità. Possono diventare fattori di crescita.Appare evidente l’accenno al ruolo educativo degli adulti.Scrive Rossetti, “Bisogna imparare a riflettere sull’utilizzo improprio dei social in generale, sapere perché usarli, capire in che modo questa nuova forma sta prendendo il posto di una vecchia forma di comunicazione, cosa si guadagna. E cosa si perde. Ho sentito ragazzi dire: non so più comunicare senza whatsapp. Porsi domande e porgliele. Se il genitore sa soltanto ridere di fronte ai selfie e non ci ragiona e gli chiede perché, perde un’occasione importante con i propri figli”.Dalle righe della cronaca che anche oggi racconta la fragilità dell’adolescenza viene un appello alla responsabilità e non a un giudizio sulle generazioni messe sottosopra anche dall’invasività dei nuovi media.Certamente un selfie è molto meglio di una foto tradizionale o di cartolina illustrata ma questo “meglio” non può illudersi e illudere che la qualità della comunicazione sia frutto solo della tecnologia.“Il selfie – afferma lo scrittore Maurizio Maggioni – non può essere l’illusione dell’essere senza esserci, la mossa maldestra di chi si fa avanti nello spazio e negli eventi alla cieca, alla disperata alla carlona attraverso l’angusto oblò di un telefono mobile”.Ecco il grande rischio: pensare che attraverso un pertugio tecnologico si possa entrare nella vita dove i volti si incontrano, dove le mani si stringono, dove il timbro delle parole è limpido.Il pertugio tecnologico può far riscoprire la bellezza delle relazioni tra le persone ma non può sostituirla con un’immagine.La cronaca, nella sua essenzialità narrativa, offre un aiuto per capire questa possibile e feconda intesa, anche quando entra nei fatti tristi e gioiosi. E l’aiuto ci sarà certamente il 19 dicembre con “Un selfie con il Papa” che presenterà foto e video dei fedeli.

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