Per Sara chiediamo solo giustizia

Caro Presidente Giorgio Napolitano, mi rivolgo a Lei perché la mia famiglia ed io siamo indignati e disperati, ma abbiamo fiducia nella sua persona perché in tante occasioni Lei ha dato prova di grande saggezza, sensibilità e umanità. Sono la zia di Sara, una ragazzina che il 15 gennaio 2010, all’età di 15 anni, viene operata di appendicite all’ospedale di Vizzolo Predabissi, vicino Milano. Entra in ospedale con le sue gambe e il fisico invidiabile di ragazzina nel fiore degli anni che partecipa alle corse campestri. Sara, da allora, non è mai più uscita dall’ospedale. Ne ha cambiati tanti, oggi all’età di 17 anni è ricoverata alla Baggina di Milano, l’ospizio degli anziani. Le è stata costruita una carrozzella, ha la respirazione assistita e viene alimentata con la PEG. Sara andava a scuola a Pavia. “Prendeva lo stesso pullman di mio figlio. Dice che tutti la conoscevano, che era molto carina.” Questo mi disse il medico del soccorso mobile arrivato da Monza dopo 33 ore di agonia e non so quanti arresti cardiaci. Le sue parole mi tornano in mente spesso. Trentatrè ore di agonia per frenare e cristallizzare per sempre la vita di una ragazzina di 15 anni, il tempo dell’incuria, della disattenzione, della superficialità, dell’

incompetenza.

Io le volevo bene, noi tutti ancor oggi le vogliamo bene. Lo scorso anno facemmo causa all’ospedale. E’ notizia di ieri: la procura della Repubblica di Lodi ha chiesto di archiviare il caso. Come è possibile? Non riesco a crederci, non credo alla fatalità e non accetto l’affermazione assolutoria che casi del genere “possano capitare”. Non ce n’erano le premesse, non si entra sani a 15 anni in ospedale per una semplice appendicite senza uscirne più. Un padre non può passare una nottata a chiedere assistenza, perché dopo l’operazione sua figlia sta visibilmente male, vomita ed è in crisi respiratoria e ricevere in cambio una risposta insufficiente, pigra e sciatta. Trentatre ore di agonia.

Qui non si tratta di malasanità, ma di mala-umanità.

I medici devono giurare per intraprendere la loro carriera, e lo fanno su un codice di 75 articoli, extra-giuridici; quindi senza valore legale. Il codice di deontologia medica non ha valore giuridico: ma allora a cosa serve?

“Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’ impegno che assumo, giuro:

...di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza...

...di promuovere l’alleanza terapeutica con il paziente fondata sulla fiducia e sulla reciproca informazione...

...di attenermi nella mia attività ai principi etici della solidarietà umana...

...di prestare, in scienza e coscienza, la mia opera, con diligenza, perizia e prudenza...

I principi contenuti nel Codice Deontologico non costituiscono a differenza delle leggi della Repubblica, un completo ed esaustivo elenco di norme da osservare ma, ispirando l’azione di vigilanza consentono di effettuare autonome valutazioni sulla correttezza comportamentale dei medici e degli odontoiatri.

Chi vigila sull’operato dei medici che hanno portato Sara a passare dalle corse campestri allo stato di quiete assoluta?

Come è possibile passare repentinamente da una appendicectomia a uno stato SV?

Nessuna risposta, a distanza di due anni il caso è archiviato.

E di Sara cosa ne facciamo? Costretta a vivere con le piaghe da decubito fra i gemiti e i rantoli dei malati terminali della Baggina.

Lo sapranno i giudici, i medici e tutto il personale sanitario, che avrebbero dovuto prendersi cura di lei, che cosa provano i genitori recandosi tutti i sacrosanti giorni al primo piano del Pio Albergo Trivulzio, ospedale geriatrico al letto numero 10 per accudire la loro figliola di 17 anni?

Possono i genitori di Sara e noi tutti archiviare il caso?

Sara non si è presentata quella mattina in tribunale. Forse se l’avessimo portata, qualche coscienza si sarebbe smossa.

Quel giorno in tribunale c’erano un sacco di avvocati. Sembravano di casa, si conoscevano, si salutavano. Quella mattina nella testa di mio fratello Francesco c’era il pensiero che Sara non si era presentata. Lui e Razika, i genitori, si sentivano in colpa, perché avevano dovuto lasciarla per tutto quel tempo da sola in ospedale. Il tempo di una mattina, che sembra sospeso e irreale quando sei con lei e ancora più lungo e infinito quando non ci sei.

Sino ad oggi abbiamo voluto tutelare Sara, il suo essere così debole, allontanando accuse e rumore. Abbiamo sperato nel miracolo della guarigione, nella giustizia e abbiamo combattuto, per quanto possibile, la nostra lotta in silenzio, pensando che fosse meglio per Sara stare lontana dai pietismi e dai litigi, ancorché legali e dagli scandalismi mass-mediatici.

Ma di fronte all’archiviazione non è più possibile tacere. Le responsabilità vanno accertate e la giustizia, caro Presidente, è un diritto di cui devono poter godere anche le persone di modeste condizioni, che non possono permettersi avvocati di grido.

Per questo mi rivolgo a Lei. Questa è una vicenda che non può concludersi con le carte bollate di una causa in Tribunale.

Chi ha ridotto Sara in questo stato deve essere messo di fronte alle sue responsabilità professionali ed umane.

Non è possibile che la vicenda giudiziaria si concluda con un’unica condanna: quella inflitta proprio a Sara. Tra le mura dell’Ospedale di Vizzolo Predabissi è stata inflitta una pena quale nessun giudice può trovare corrispondenza, è questa la verità?

Adesso nulla è più gravoso di questa condizione, proprio nulla.

Caro Presidente, ci aiuti Lei.

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