Per l’Ilva con il fiato sospeso

In quest’autunno costellato di episodi eclatanti che riguardano lavoratori alla difesa della propria occupazione, pesa come un macigno sull’economia nazionale la vicenda dell’Ilva di Taranto, la più grande acciaieria italiana bloccata dalla magistratura locale: inquina. Lo fa da decenni, lo fa in maniera nociva alla salute di una Taranto che sta a ridosso dell’enorme complesso industriale. Bisogna tutelare la salute collettiva – hanno deciso i magistrati, sulla spinta di comitati locali che da anni si battono contro i fumi dell’acciaieria e le malattie anche mortali che essa ha provocato a lavoratori e residenti. Il problema è che la tutela della salute pubblica si scontra con gli interessi soggettivi di migliaia di lavoratori che vedono nello spegnimento degli altoforni e nella sostanziale chiusura dell’impianto, il funerale del proprio posto di lavoro. Siamo nel profondo Sud, non a Cinisello Balsamo. Qui i posti di lavoro sono più preziosi dell’oro, e prezioso è pure il prodotto che fuoriesce dall’acciaieria di proprietà della famiglia Riva. L’acciaio è sembrato ad un certo punto qualcosa di retrò, che non si “portava” più nell’era del digitale e dell’immateriale. Invece l’acciaio è ancora l’ossatura del manifatturiero mondiale, la plastica non lo ha certo scalzato in moltissime lavorazioni. I fogli di lamiera sono vitali per l’industria italiana: è stato calcolato che la chiusura dell’Ilva di Taranto manderebbe in tilt mezza economia del Veneto, costretta a servirsi a costi e tempi maggiorati da produttori esteri.E la vecchia combinazione di ferro e carbonio è ancora la struttura portante di un’economia mondiale sempre più affamata di un prodotto ora richiesto e prodotto pure da Cina, India, Brasile.Orbene, che fare? Salvare Taranto, o salvare le migliaia di posti di lavoro (si parla pure di 180 aziende di indotto locale) che l’Ilva garantisce? Come lavorare senza continuare ad inquinare? Come garantire la capra della salute pubblica locale, con i cavoli degli stipendi e dell’interesse nazionale?Un corto circuito a cui il governo Monti sta cercando di porre rimedio. La magistratura ha ordinato lo spegnimento di certi impianti: fine dell’inquinamento, ma pure fine dell’Ilva. Senza produzione mancherebbero i soldi – almeno 400 milioni di euro – per risanare l’impianto; e la riaccensione degli altoforni è cosa che non si fa in un amen, ma in più di un anno.Sulla morbosità dell’acciaieria, c’è da dire che oggi non è ieri: è inquinante, ma meno di un tempo e le malattie sono frutto degli anni passati. Ma: si possono perfettamente capire tutte i timori e le richieste di chi a Taranto ci vive, ha figli, vorrebbe camparci senza essere ammazzato dai fumi di un’acciaieria. Immaginate di averla a 500 metri da casa vostra…Le prossime ore saranno decisive. Ad impianto spento, il problema sarà per una parte risolto: a quel punto si dovranno trovare le contromisure per tutelare i redditi dei lavoratori, e le esigenze dell’economia italiana. A impianto salvaguardato, andrà immediatamente messa a regime un’azione di risanamento dell’impianto svolta dallo Stato stesso, e pagata dalla proprietà privata, con modalità e quantità che non spingano la stessa a gettare la spugna (raccomandabile anche l’uso di fondi pubblici: l’Ilva è un asset di interesse strategico, e lì – in quel posto ora assurdo – la mise lo Stato italiano).A tutti gli attori in questione si raccomandano abbondanti dosi di buonsenso, di trasparenza, di celerità.Se guardiamo al fatto che l’Italia è riuscita a sollevarsi da una devastante guerra mondiale, il problema di Taranto non dovrebbe risultare insormontabile. Se invece vediamo nei particolari come si sia affrontata di recente la ricostruzione de L’Aquila, o la deindustrializzazione della Sardegna, i polsi iniziano a tremare. Se infine si valutano i tempi del risanamento dell’area napoletana di Bagnoli – altro sito ex Italsider – dismessa da “appena” due decenni, c’è da affidarsi al miracolo. Proviamo, per una volta, a smentire la nostra fama.

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