Per 31 anni in ospedale a Lodi, Angela Bocconi va in pensione: «Mi mancano le persone» GUARDA IL VIDEO

Le relazioni e le storie di vita nella lunga carriera del direttore medico del Maggiore

La memoria srotola i ricordi di questi 30 anni di attività in ospedale. Angela Bocconi, 62 anni, direttore medico dell’ospedale di Lodi, in pensione da 4 giorni, ha visto il Maggiore ribaltarsi come un calzino. E quando non c’era ancora l’Urp, il suo compito era persino quello di mediare i conflitti tra i pazienti e la struttura, oltre che tra i colleghi. Ricorda quella volta che il famigliare di un paziente le lanciò addosso una sedia e fu costretta a chiamare la guardia. Un’altra volta ancora, memorabile, in pieno agosto, una dottoressa prese per le orecchie il suo collega e lei fu chiamata a risolvere la diatriba. In quel caso, a dire la verità, cercò di mettere sul ridere la vicenda, come sa fare lei, e il caso finì lì.

La dottoressa Bocconi, anche se non ha mai prescritto terapie ai ricoverati o dimesso i malati, è sempre stata in campo per gestire l’intero apparato. Quello di Lodi è un po’ come se fosse il “suo” ospedale. Venerdì è stato il suo ultimo giorno di lavoro, ora è in ferie e poi sarà in pensione. Bionda, vestita di rosso e arancione, piena di anelli e collane, sorridente come sempre, non nasconde un po’ di commozione: il rosso circonda i suoi occhi azzurri. «Cosa farò in pensione? La mamma delle mie due figlie di 28 e 25 anni, la moglie e poi, più in là, la nonna, ma anche la cuoca».

La dottoressa Bocconi, infatti, gestisce il profilo Instagram “La cucina di Angelina” e ha 5400 followers. «Per me che non ho mai fatto libera professione e non la farò neanche adesso - dice - andare in pensione significa un distacco emotivo forte, ma anche un cambiamento radicale di vita». Dopo il Gandini, la dottoressa si è laureata in medicina a Pavia, si è specializzata in igiene; ha lavorato un anno a Treviglio prima di venire a Lodi.

A Lodi quando è approdata?

«Il dottor Antonio Cuccia mi ha chiamata come ispettore sanitario, poi il dottor Marco Salmoiraghi, quando si trasferì Andrea Bianchi mi affidò l’incarico. Era più o meno il 2000. Tra il 2002 e il 2003 ho fatto il concorso di supplente e poi sono sempre stata direttore medico».

Cosa si ricorda di più di questi anni?

«L’esperienza del Covid e poi le storie di vita dei pazienti che finivano in direzione per essere gestite».

L’esperienza che l’ha toccata maggiormente?

«È stato molto toccante l’episodio della morte della bambina, Chiara Colombo».

Altri casi che si ricorda?

«I neonati abbandonati perché le famiglie non li potevano tenere e i pazienti in fine vita che chiedevano di andare al matrimonio o al battesimo del nipote perché poi non l’avrebbero visto più. I ricordi maggiori sono quelli legati alle relazioni, poi ci sono i ricordi professionali».

Per esempio?

«In 30 anni l’ospedale di Lodi ha cambiato fisionomia».

In che modo?

«È passato da essere un ospedale degli anni ’60 a un ospedale di concezione moderna, con stanze a due letti e moderno anche dal punto di vista impiantistico. Mi sono occupata da subito di edilizia sanitaria, cioè del rapporto tra spazio e funzioni».

In pandemia stanze da due con un bagno in comune non è stato un problema?

«In piena pandemia direi di no perché tutto l’ospedale era pieno di pazienti contagiati, lo è quando devi isolare un paziente positivo da uno negativo».

Servirebbe un ospedale nuovo a Lodi?

«Servirebbe un ospedale più grande. Manca spazio per aumentare i letti, per aumentare gli ambulatori. È piccolo per una città come Lodi. Un ospedale nuovo servirebbe, ma ormai è anacronistico».

A Cremona nasce un nuovo ospedale...

«O si riusciva a portare avanti il progetto quando si è mossa Cremona, ma i tempi non erano maturi per un cambiamento così radicale che avrebbe coinvolto tutta la provincia, non solo Lodi».

Come è cambiata la medicina in questi anni?

«Ha fatto cambiamenti velocissimi, dal punto di vista delle apparecchiature, della diagnostica, delle tecniche operatorie. A fare laparoscopia aveva iniziato il primario della ginecologia Massimo Luerti, più di 20 anni fa, adesso è la normalità e l’eccezione sono gli interventi a cielo aperto».

Dal punto di vista della gestione?

«Non vorrei dire che si è burocratizzata perché non mi piace la parola, ma è un continuo fornire dati, analisi, meta-analisi, relazioni. Quotidianamente Ats ci sommerge di richieste. È la parte del lavoro più difficile da gestire, che non mi piace».

È orgogliosa del suo ospedale?

«Molto. Per le capacità professionali dei sanitari, ma anche per il fatto che essendo un ospedale di provincia, il rapporto tra sanitari e pazienti è personale. La dimensione umana prevale, cosa che si è persa nei grandi ospedali della metropoli».

Come mai molti operatori sono andati via da Lodi?

«Ognuno è andato via per motivazioni diverse. Visti insieme sembra una fuga, ma ognuno aveva le sue motivazioni personali».

Cosa le mancherà di più?

«I rapporti interpersonali. Sono sempre in mezzo alla gente, a casa sarò da sola, tra virgolette».

Nel suo ruolo ha dovuto gestire anche le conflittualità...

«Sì ho dovuto mettere in campo le doti di mediazione, cercando di riportare le conflittualità tra operatore e paziente o tra gli operatori sui giusti binari».

È riuscita?

«Ci ho provato».

Ha fatto dei corsi per questo?

«Sì, sì, corsi di management, gestione del conflitto, leadership, motivazione del gruppo di lavoro».

Si ricorda qualche episodio?

«Una signora mi ha lanciato una sedia. La protesi della sua parente si era rotta, ma era agosto e la ditta che si occupava di aggiustargliela era chiusa per ferie e bisognava aspettare che riaprisse. Abbiamo chiamato la guardia».

Si ricorda un altro caso?

«Una volta abbiamo chiamato i carabinieri perché una famiglia non voleva portare a casa la parente in dimissione».

Sogni nel cassetto non realizzati?

«La realizzazione di un nido per i figli dei dipendenti, avrebbe dovuto essere aperto anche di notte, poi non siamo riusciti a realizzarlo per una serie di motivi. Il secondo sogno nel cassetto, l’ospedale aperto, per fare in modo che ognuno potesse visitare i suoi familiari h 24. Si fa fatica a far coincidere le visite con le attività cliniche e poi si è messo di mezzo il Covid. Quella dell’umanizzazione però è una strada che dopo la pandemia si riprenderà».

In questo periodo, dicendo ai parenti di portarsi da casa il camice e le protezioni necessarie, non è possibile consentire le visite?

«Sarebbe fattibile, ma è difficile controllare. Ci è capitato che qualcuno prendesse la tachipirina per far scendere la febbre e venire, ma qua abbiamo pazienti immunodepressi, creare un focolaio è un attimo».

Quando le è arrivata la notizia del primo caso di Covid?

«Alle 16 del 20 febbraio mi avevano detto di aver inviato il tampone e poi alle 20 arrivò la conferma e ci riunimmo subito in unità di crisi».

Cosa provò?

«Ero terrorizzata. I primi giorni avevo una paura incredibile, avevo negli occhi le immagini della Cina, non sapevamo nulla di questa malattia».

Poi la paura è passata?

«Poi non avevamo più il tempo di aver paura perché lavoravamo senza sosta anche il sabato e la domenica. È stata una grande esperienza, anche di vita».

Si sarebbe potuta gestire diversamente la pandemia?

«Con le conoscenze di allora i colleghi sono stati fin troppo bravi: hanno ideato un modello di approccio che ci hanno copiato in Israele, in America e in Inghilterra».

Vuole lanciare un messaggio?

«Guardi, c’è una frase di Confucio che dice: “Se ami il lavoro che fai non lavorerai neanche un giorno della tua vita”. Per me è stato così».

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