Durante la recente audizione davanti alle Commissioni Bilancio congiunte di Camera e Senato, l’Istat ha certificato l’esistenza di un gap di mancate entrate tributarie e contributive pari a 107,7 miliardi di euro nel solo periodo 2012-2014. Un dato enorme e preoccupante se rapportato alla nostra sempre più compromessa spesa sociale. Ciò che stupisce è il fatto che l’arco temporale preso in esame dall’Istat questa volta coincide con un periodo che ha visto un particolare inasprimento degli strumenti di lotta all’evasione e (purtroppo) numerosi gesti disperati da parte di cittadini a vario titolo vessati dalla burocrazia fiscale. Da un lato c’era chi rivendicava i grandi risultati ottenuti sul fronte del recupero dell’evasione fiscale, dall’altro c’era chi contestava, chiedendone l’abolizione, l’operato dell’agenzia di riscossione Equitalia che tutt’oggi sopravvive sotto altra denominazione.I dati forniti dall’istituto di statistica sanciscono il fallimento degli approcci sin qui seguiti dai diversi esecutivi.L’evasione non può essere imputata solo a responsabilità dello Stato, né tantomeno solo al cittadino evasore. Simili approcci semplicistici impediscono di cogliere la profondità del problema che, invece, risiede nell’essere via via venute meno le condizioni per un’alleanza tra Stato, società civile e mercato capace di guardare al bene comune. In questo clima ciascuno cerca di difendersi come può ma alla fine a pagarne le spese sono sempre i cittadini più onesti.Pagare le tasse è un dovere di tutti i cittadini, non si discute. Così come è indiscutibile che lo Stato debba fare quanto necessario per riscuotere i suoi crediti tributari. È una questione, appunto, di bene comune, al cui perseguimento (anche) lo Stato, insieme a ciascun individuo e ai corpi sociali intermedi, è deputato.Ciò che sembra invece profondamente sbagliato e non perseguibile ad oltranza nel quadro delle regole europee è – rifacendosi alla teoria della public choice elaborata dal Nobel per l’economia James Buchanan e Gordon Tullock – abusare della leva fiscale per finanziare il “costo del consenso”. Tale scambio innesca una spirale senza fine che rende vano qualsiasi tentativo di successiva revisione della spesa, generando sempre maggiori conflittualità tra lo Stato e le altre componenti della società.Altrettanto sbagliato, oltre che moralmente inaccettabile, è poi da un lato non garantire i servizi universali a tutela dei diritti fondamentali della persona e, dall’altro, in nome della lotta all’evasione, caricare i cittadini di sanzioni e interessi che nella maggior parte dei casi finiscono per superare finanche il debito tributario contratto dal contribuente, con conseguenze talvolta devastanti. La dignità umana, infatti, dovrebbe costituire un limite invalicabile anche per il fisco.Fuori dal binario di un nuovo patto fiscale capace di far convergere lo Stato, la struttura produttiva del Paese e la società civile nella ricerca del bene comune non v’è possibilità di far emergere l’economia sommersa, né di sconfiggere la piaga dell’evasione fiscale e contributiva.Ogni diverso approccio ha dimostrato di non riuscire ad offrire una valida modalità di composizione degli interessi in gioco, orientandoli al bene comune. I risultati delle politiche di lotta all’evasione hanno prodotto ulteriori frammentazioni sociali ed un crescente clima di sfiducia nei confronti delle istituzioni.Il patto fiscale di cui necessità il Paese richiede innanzitutto istituzioni inclusive, ordinate secondo il principio di sussidiarietà e poliarchia, e a fare da contraltare a queste ultime, una società capace di esercitare le virtù civiche, riprendendo le redini del proprio destino. Se quella che sta per concludersi doveva essere una legislatura costituente, ci auguriamo perciò che la prossima possa essere una legislatura capace di ricomporre i diversi interessi in gioco.
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