Pagano per colpe non loro

Sono tanti, sono giovani e non hanno un futuro certo. Una generazione istruita come nessuna prima, dalle enormi potenzialità. Che però non si possono esprimere. Perché il mercato non li cerca. O, se li cerca, li vuole per stage non retribuiti, o per lavori sottopagati. E allora loro a cadere nel vuoto di attese senza sbocchi, se non addirittura nell’inedia esistenziale.

I sociologi, per definire questa nuova galassia di “giovani fuori”, hanno coniato un acronimo ormai usato in tutto il mondo: Neet.

Sta per Not in employment, education and training. Designa i giovani tra i 15 e i 29 anni che dichiarano di non frequentare alcun corso di formazione o tirocinio, di non essere iscritti ad alcun percorso formale di istruzione, di essere contemporaneamente privi di lavoro. Fuori da tutto, insomma.

Da ogni prospettiva di futuro.

Sono un esercito in crescita in tutta Europa, che in Italia raggiunge numeri e percentuali allarmanti: secondo l’Istat, nel 2009 si registravano circa due milioni di Neet nel nostro paese, cifra senza paragoni negli altri paesi avanzati.

«Questa accentuazione italiana – commenta Alessandro Rosina,

professore di demografia all’Università Cattolica di Milano – si spiega col fatto che negli ultimi anni in tutti i paesi sviluppati si sono elaborate politiche di ostegno all’inserimento lavorativo delle giovani generazioni. Da noi ciò non è accaduto.

Ma rallentare l’inserimento di un giovane nel lavoro senza migliorare la sua condizione tramite corsi di formazione vuol dire far “bruciare” un periodo importante della vita. Perché più si rimane in una situazione di esclusione da qualsiasi circuito formativo e lavorativo, più si riduce la possibilità di trovare un lavoro di qualità. Uno spreco di risorse e di energie, che finisce per rispecchiarsi sullo sviluppo di un paese».

I Neet oggi pagano una situazione, marcatamente italiana, in cui è sempre più difficile trovare occupazione, trovarla a tempo pieno e poterla poi stabilizzare. Sabrina Colombo, docente in sociologia economica all’Università degli studi di Milano, ha partecipato a una ricerca che Eurofound, la Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, sta realizzando proprio sui Neet.

«I dati raccolti sono preoccupanti – spiega –. L’Italia vanta tassi di Neet tra i più alti in Europa, soprattutto nella fascia tra i 25 e i 29 anni. Invece tra i più giovani il nostro paese non è lontanissimo, per esempio, dal Regno Unito. Questo è un dato interessante; i giovani anglosassoni hanno maggiori possibilità di entrata nel mondo del lavoro, ma anche maggiori possibilità di cadere in povertà, perché abbandonano presto la famiglia e non possono contare sul sostegno dei congiunti».

I Neet in Italia “esistono” come categoria solo da un anno, ovvero da quando il Rapporto Istat 2010 ha cominciato a definirli come tali. Ma problemi quali l’abbandono scolastico e il difficile inserimento nel mondo del lavoro non sono nuovi per il nostro paese, anche se ben poco è stato fatto in termini di intervento pubblico.

«Grazie soprattutto ai fondi sociali europei – prosegue Sabrina Colombo – l’Italia da qualche anno mette in atto politiche di prevenzione e di correzione, al fine di rendere attraenti le istituzioni scolastiche per gli studenti, tramite attività non solo tipiche e formali, ma anche creative. Si tratta di progetti che hanno avuto e hanno successo. Il problema è che tutto sembra limitarsi a questo. Oltre ai fondi Ue c’è poco o nulla. Stesso discorso sul fronte lavorativo: innovazioni anche importanti (l’apprendistato di terzo livello) non stanno avendo il successo sperato. Serve un cambiamento che investa non solo il governo, ma tutti gli altri soggetti con responsabilità per il lavoro: gli imprenditori, sebbene abbiano spesso investito sul rapporto con l’università, sembrano chiudere gli occhi, a volte, davanti a stage in cui i giovani vengono prevalentemente sfruttati; il sindacato solo ora sembra iniziare timidamente a muoversi per cercare di favorire il mix tra lavoro e formazione».

Non si devono poi dimenticare le dinamiche, pure queste tutte italiane, legate alla vita in casa con i genitori.

«Se da noi i Neet sono tanti è perché esistono condizioni culturali per il diffondersi del fenomeno – riprende Alessandro Rosina –. In altri paesi, dalla Danimarca alla Francia, dove i ragazzi escono di casa giovanissimi, sono pochi quelli che si possono permettere di restarsene senza fare nulla. Da noi invece accettare lavori non pagati, perché comunque si viene mantenuti dai genitori, viene considerato normale...».

Quello che in molti non considerano, è che fare tardi e male il proprio ingresso nel mondo del lavoro significa essere penalizzati nel resto del percorso di carriera.

«Oggi per buona parte dei giovani esistono solo due possibilità

– prosegue Rosina –: o rivedere le proprie aspettative al ribasso, o andarsene all’estero, dove si fanno ponti d’oro ai giovani con forti potenzialità. Una situazione coerente con il fatto che negli ultimi dieci anni siamo cresciuti meno degli altri paesi; non abbiamo saputo trasformare le competenze e la capacità di innovazione dei giovani in strumento di crescita».

La crisi avrebbe potuto costituire l’occasione per sviluppare

politiche lungimiranti.

«Ma la politica non è in grado di garantire risposte adeguate – prosegue Rosina –. E la fase attuale aumenta le disuguaglianze sociali. Le famiglie benestanti, ma anche quelle che hanno mantenuto inalterata la capacità lavorativa, non hanno affatto peggiorato la propria situazione economica. In un sistema in cui contano più le risorse della famiglia d’origine che le qualità o la preparazione dei singoli, ciò genera disuguaglianze sempre più profonde».

Quindi i ragazzi migliori se ne vanno all’estero. E chi ha una famiglia solida alle spalle continua a compensare la carenza di politiche adeguate, indipendentemente dai propri talenti. Tutti gli altri sono penalizzati: un quadro desolante.

«Però ciò che vedo – conclude Rosina – è che tra i giovani sta cambiando l’atteggiamento nei confronti della politica. Dal voto di Obama alla situazione nordafricana, dagli “indignati” spagnoli alla forte mobilitazione

per i recenti referendum in Italia: sono molti i segnali di questa novità. Incarnata da una generazione di “nativi digitali” che hanno identità globalizzata, sono abituati a viaggiare e in grado di confrontarsi con il mondo. Quando si sente la necessità di forzare un cambiamento, le nuove generazioni ne diventano alleate. Questi tratti, meno passivi e meno remissivi, sono la speranza per il domani: i giovani di oggi sembrano più pronti, collettivamente, a produrre cambiamento in una società che non li valorizza. E a mettersi in gioco per favorirlo».

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