Offrire le intelligenze italiane

Per fare impresa ci vogliono i soldi, altrimenti denominati “investimenti”. Lo Stato italiano non ha nemmeno gli euro per pagare le intercettazioni telefoniche disposte dalla magistratura; i capitalisti italiani hanno sempre meno capitali, e meno voglia di impiegarli a rischio. Ma il mondo, di converso, è sommerso di soldi. Per varie ragioni, non c’è mai stata tanta liquidità disponibile come al giorno d’oggi. Centinaia di miliardi di petrodollari provenienti dai Paesi arabi sono alla ricerca di occasioni (e puntano quasi sempre su Gran Bretagna e Usa); il Giappone sta stampando camionate di yen che cercano altrove rendimenti più interessanti dello zero offerto dai titoli pubblici nazionali; la Cina ha un surplus commerciale folle che da troppo tempo tiene congelato nel dollaro per impedire che esso si deprezzi e quindi soffochi le importazioni americane di prodotti made in China; enormi capitali privati gonfiano a dismisura azioni come Facebook o Apple, ma dall’Italia fanno un giro largo. Nel nostro piccolo, abbiamo decine di miliardi di euro di risparmi italiani “congelati” in liquidità (Bot, conti correnti, conti on line) a rendimento minimo, frenati dalla nostra paura del presente ma anche dalla scarsità di impieghi validi e interessanti. Insomma un fiume di soldi lambisce tante sponde, meno la nostra.Noi italiani siamo stati abituati bene, e male. Bene nel senso che l’imprenditore ci metteva idee, lavoro e coraggio; ma i soldi arrivavano dalle banche. Queste, per varie ragioni, ora li stanno centellinando. Ci sarebbe la Borsa, strumento di raccolta di capitali: così poco attraente, quella italiana, che vale poco più della metà di quella di Singapore. D’altronde, le (poche) aziende quotate non fanno molta gola; molte altre assai valide non hanno interesse a quotarsi; altre ancora si rivolgono all’estero (New York, Londra, Hong Kong) per trovare capitali. I governi Monti e Letta hanno allora puntato sul settore obbligazionario, che piace tanto agli italiani, che già ora “pesa” dieci volte più dell’azionario e che può essere un valido strumento di sviluppo e di finanziamento delle imprese, anche di medio-piccole dimensioni. Meno guadagni ma anche meno rischi. Vedremo gli sviluppi.Ma dove impiegare questi capitali? Dove possono trovare occasione di fruttare industrialmente?La brutta notizia è che difficilmente si ricreeranno le condizioni per la costruzione di grandi impianti industriali in Italia. Raffinerie, acciaierie, fabbriche chimiche e metallurgiche (alluminio) si stanno spostando inesorabilmente dall’Europa verso l’Asia. Tenersi strette quelle che ancora funzionano sarebbe per noi vitale, ma sta accadendo esattamente il contrario. Costo della manodopera; normative sindacali, di sicurezza, ambientali; facilitazioni fiscali e burocratiche: tutti ostacoli troppo grandi per essere superati o aggirati. Le (poche) grandi fabbriche italiane, quando chiuderanno i battenti, diventeranno definitivamente archeologia industriale. Il futuro è altrove: per un Paese come il nostro viene dalla risorsa-cervello (non ne abbiamo altre). L’invenzione di un meccanismo di guida automatica per l’auto; la nano-molecola con riflessi farmaceutici; il tessuto hi-tech; la pellicola che immagazzina energia solare; un sofisticato sistema di telecomunicazioni… Sarà la ricerca – come sempre – a tracciare la strada: se lo Stato ha poco da investire, allora punti tutte le sue carte su questo tavolo. E “ricerca” non è un modo di dire ma il braccio armato del sistema di istruzione e formazione. Poi l’Italia è patria di eccellenze mondiali che aspettano solo di passare dalla fase semi-artigianale a quella industriale su scala mondiale: la gastronomia (dalla pasta in poi); un agroalimentare che nessun altro ha; uno stile di (bella) vita che si concretizza in moda, accessori, mobili e oggetti d’arredamento, rivestimenti casa, auto e moto da sogno… L’italian style, insomma, ha solo da conquistare il mondo, in quanto difficilmente imitabile. Se l’italian style trascinerà con sé pure il concetto di made in Italy (quindi prodotto qui e non altrove), sarà occupazione e redditi che beneficano l’Italia e non qualcun altro.Non dimentichiamo poi che i prodotti, bisogna saperli vendere: quindi catene di negozi, di ipermercati, marketing a livello mondiale. Cose che sappiamo fare benissimo, ma in piccolo. E su questo americani, francesi, tedeschi, pure i cinesi ci superano. Infine sì: l’Italia è bella, ha una storia incredibile, un patrimonio artistico come pochi altri, una qualità del vivere proverbiale. Insomma turismo. Che va sfruttato appieno con una logica industriale e di lungo periodo: quindi superiamo le logiche “artigianali” della pensioncina sul mare, del chioschetto gelati, della mostra sganciata da ogni altro contesto. Le grandi catene alberghiere le hanno tutti, meno che noi: va bene che “piccolo è bello”, ma rimane pur sempre piccolo. Pompei ce l’abbiamo solo noi, e se fosse negli Usa sarebbe il sito più visitato (e meglio tenuto) del mondo.E qui sta il problema di fondo. La sparizione della grande industria (basti vedere il panorama urbanistico dell’hinterland milanese degli anni Settanta e quello di oggi) trascina nel nulla milioni di posti di lavoro. La Apple – il gigante mondiale dell’informatica – dà lavoro ad appena 13mila persone negli Usa, oltre a 30mila tra commessi di negozio e magazzinieri. Mentre la “vecchia” General Motors stipendia ancor oggi qualcosa come 200mila dipendenti. Insomma il futuro dell’Occidente difficilmente prevederà fabbriche ad alta densità di manodopera, quanto invece occasioni di lavoro per personale altamente qualificato.Qui sta la considerazione finale: l’Italia ripartirà in parte, e in una sua parte. Il Meridione appare perduto: mancano proprio le basi (a cominciare da una rete di Politecnici ad alta qualificazione), manca la possibilità di sfruttare in loco l’intelligenza dei suoi figli. Emigrare sarà una prospettiva che si proporrà per gran parte della gioventù meridionale. Nulla è stato seminato, difficilmente si raccoglierà qualcosa.

© RIPRODUZIONE RISERVATA