Nuovi poveri, un fiume in piena

I saggi sulla disuguaglianza si sono moltiplicati negli ultimi anni e continuano ad essere pubblicati in grande numero, segno evidente che la crisi economica iniziata nel 2008 ha stimolato una riflessione sulla situazione delle nostre società.

E opinione consolidata che le trasformazioni avvenute nella società globalizzata, dopo la spinta dei tre decenni seguiti alla fine della seconda guerra mondiale (durante i quali le disuguaglianze si sono ridotte sensibilmente), non sono andate a vantaggio dei gruppi sociali più sfavoriti. Ha sottolineato Michele Ainis: «La disparità fra gli individui e i popoli significa la possibilità di vivere due volle per chi è nato nei paesi ricchi (Australia, Europa, Giappone). Lì la durata media della vita supera gli 8o anni, mentre in Nigeria o in Mali non arriva a 45 anni».

La globalizzazione, che ha caratterizzato la storia economica e sociale a partire dagli anni 8o, ha avvantaggiato alcuni settori produttivi e i ceti meglio provvisti di capitale finanziario e culturale.

La crisi è deflagrata quando la disuguaglianza negli stati e fra gli stati ha toccato il picco e le sue conseguenze hanno avuto costi enormi in termini economici, sociali ed etici.

Bisogna parlare di una disuguaglianza economica (Piketty), di una disuguaglianza amplificata dal dissennato sfruttamento delle risorse ambientali e dal conseguente cambiamento del clima (Klein), di una disuguaglianza sociale (Crouch), di una disuguaglianza provocata dal mancato rispetto delle leggi (Ainis) e di una disuguaglianza che trova espressione nello scandalo della povertà (Paglia).

La somma delle disuguaglianze innesca anche i potenti flussi migratori che toccano da vicino i nostri confini, vengono fronteggiati con politiche di stampo repressivo e finiscono per minare la sfera dei diritti, criminalizzando coloro che fuggono dai luoghi nei quali dominano povertà e violenza.

Il tema della disuguaglianza è stato portato al centro del dibattito culturale fin dal 1992, quando il premio Nobel Amartya Sen ne ha fatto il centro della propria analisi, contribuendo a sviluppare un filone di studi ripreso da numerosi altri autori fino ad oggi.

Uno dei casi editoriali del 2014 non è stato un romanzo, ma un saggio di oltre 900 pagine, interamente dedicato al tema della disuguaglianza economica e il cui titolo ci riporta a un tempo ritenuto scomparso (il riferimento è all’opera di Marx): Il capitale nel XXI secolo, di Thomas Piketty. Un libro molto utile, che ricostruisce, dati alla mano, il crescente divario tra ricchi e poveri.

Piketty non ha come obiettivo istruire un processo contro i possessori di ricchezze, ma mettere a confronto le strutture delle disuguaglianze presenti nelle società occidentali, utilizzando dati e statistiche che permettono raffronti obiettivi e rigorosi tra paesi diversi e che evidenziano come si sia passati da una società di possessori di capitali (tipica del XX secolo) ad una società caratterizzata dalla abnorme crescita dei salari degli alti dirigenti (nei primi anni del XXI secolo il loro potere d’acquisto è aumentato del 50%). Questo dato ha portato ad una forbice amplissima tra quel 50% della popolazione che possiede meno del 10% del patrimonio nazionale e il 10% più ricco che possiede il 6o% (in Francia) o il 72% (negli Usa). La crescita della disuguaglianza è più forte negli Usa perché quella società riconosce il bisogno di proclamare dei vincitori e di remunerarli con compensi stratosferici.

La redistribuzione dei redditi non dovrebbe consistere soltanto nel trasferire la ricchezza dai più ricchi ai più poveri, ma nel finanziamento di servizi pubblici e di redditi sostitutivi uguali per tutti (istruzione, salute, pensioni). Per ottenere questo risultato, Piketty propone un’imposta mondiale e progressiva sul capitale, accompagnata da un’altissima trasparenza finanziaria, procedendo per tappe graduali (ad esempio, iniziando su scala regionale o continentale).

Il libro di Naorni Klein verte sulla necessità di affrontare i cambiamenti climatici con una urgenza che dovrebbe coinvolgere tutti i cittadini in una doverosa responsabilizzazione, per attivare politiche che riducano il divario tra ricchi e poveri. Il cambiamento climatico, effetto di un modello produttivo basato sulle emissioni di sostanze altamente inquinanti, aggrava il riscaldamento globale (i cui primi effetti sono già evidenti).

Le conseguenze saranno più pesanti per le persone che vivono nei paesi meno sviluppati e sulle persone che non avranno i mezzi economici e tecnologici per sopportarle. Il ritardo con cui vengono approntate le misure per ridurre il riscaldamento globale è provocato dalle nazioni industrializzate, che temono di vedersi ridurre i margini di profitto delle loro attività, molte delle quali legate alle produzioni e agli stili di vita più inquinanti.

Gli enormi investimenti globali necessari per ridurre la minaccia climatica potrebbero trasformarsi in un’occasione per agire con umanità e giustizia. Questi investimenti, infatti, potrebbero portare ad una redistribuzione equa delle terre agricole nei paesi non ancora industrializzati e garantire posti di lavoro; potrebbero portare acqua pulita nelle comunità espropriate dai lavori per lo sfruttamento intensivo degli allevamenti; potrebbero portare elettricità e acqua corrente dove mancano.

Il movimento ambientalista dovrà inserirsi in una battaglia più ampia che vada nella direzione di ricostruire e reinventare le idee della collettività, della comunità, dei beni comuni, del senso di appartenenza civica e civile.

L’obiettivo da perseguire non è, quindi, soltanto un insieme alternativo di proposte politiche, ma una visione del mondo che competa con quella che si trova all’origine della crisi economica; una visione radicata nell’interdipendenza anziché nell’individualismo, nella reciprocità anziché nel predominio, nella cooperazione anziché nella gerarchia. Si tratta di valori e di sollecitazioni che si trovano scritti nella nostra Costituzione, come rileva Ainis nel suo saggio. A livello nazionale e globale va pertanto rafforzata l’eguaglianza più desiderabile, quella che rende tutti uguali sulla linea di partenza.

Parlando di disuguaglianza, non può non essere affrontato il tema della povertà e dei poveri. Di loro e di come è stata letta la povertà nella storia della Chiesa traccia un profilo Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio consiglio per la famiglia, che ricorda come «i grandi momenti di riforma della Chiesa sono sempre stati segnati da un rinnovato impegno in favore dei poveri». Per questo motivo chi ha seguito la storia del cristianesimo non è rimasto completamente sorpreso da come sta parlando e agendo papa Francesco. La ricostruzione delle modalità con cui la Chiesa ha corrisposto all’impegno per i poveri rende conto non solo degli interventi che essa ha effettuato, ma anche dei complessi rapporti che ha avuto con il potere politico: le attività caritative e assistenziali non potevano non avere un impatto sulla società e sulle istituzioni pubbliche.

A differenza del passato, si assiste oggi alla contraddizione tra un mondo ostentatamente ricco e un numero enorme di poveri. Ad un mercato globale fa riscontro una marginalità globalizzata che favorisce l’emergere di conflitti sociali cavalcati da populismi e fondamentalismi. L’eccesso consumistico stride con il fiume in piena del numero delle famiglie povere, lasciate sole in un mondo dominato dal mercato.

Il generale calo della tensione etica (di cui la corruzione è uno degli elementi più evidenti) spinge i singoli e i popoli ad una competizione senza limiti, di cui fanno le spese i più poveri.

Non a caso – sottolinea mons. Paglia – l’impegno concreto della comunità internazionale per la riduzione degli squilibri sociali è molto più debole rispetto a quello per le spese militari. Per arginare le disuguaglianze occorre identificare e circoscrivere i loro contorni e i soggetti coinvolti.

Il nuovo secolo vede, accanto alla povertà tradizionale, un insieme di nuove povertà che affliggono anziani, orfani, malati cronici, tossicodipendenti, immigrati. Si tratta di soggetti che non trovano adeguata protezione dagli interventi di politica sociale. L’indubbio sbilanciamento a favore del mercato – conclude mons. Paglia – continuerà a creare le condizioni per la diffusione di un malessere che può sfociare in conflitti sempre più estesi e violenti: la via da intraprendere è, quindi, umanizzare la globalizzazione della solidarietà che deve trovare unite la Chiesa e le istituzioni per dare un senso e un valore alla politica e alla morale.

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