Non spegnersi dentro alle rinunce

Forse al miscuglio di sentimenti che provo, dopo le abominevoli conseguenze della processione mariana svoltasi in un paesino del Sud infiltrato da inique presenze malavitose, posso attribuire il sentimento della rabbia, una sensazione devastante afflitta da considerazioni spirituali, antropologiche, politiche, e persino geopolitiche.Da giorni, da quando cioè è emerso l’ennesimo fattaccio, cioè che la ‘ndrangheta ha manipolato una festa religiosa, obbligando il fercolo con l’effige di Maria a sostare sotto la casa di un boss, invertendo persino il senso di marcia inizialmente previsto, faccio i conti con quello che è stato il mio vissuto di bambino in una città della Sicilia e con le tante processioni in onore ora di un martire e ora di un altro e poi di un altro ancora, forse assecondando la cultura che più santi si hanno in paradiso e meglio si sta, e pretendendo che anche in terra è meglio avere un buon protettore, asservendosi così alla cultura della raccomandazione perché tutto, in definitiva, dalla terra al paradiso, è una catena.Certo, una Sicilia d’altri tempi. Ma neanche troppo lontani. Oppure un’isola i cui riti, la cui cultura, i cui istinti, restano pur sempre mimetizzi, ma pronti a riemergere, suggellando un patto sotterraneo, nascosto come la lava, emblema della mia terra, invisibile dentro alle viscere del vulcano e rossa come il sangue, che unisce i morti ammazzati, i martiri come le belve assassine. E con quegli occhi di me che fu bambino mi sembra di rivedere, confusamente e poi nitidamente, i volti di gente che camminava ai lati del corteo, e sembrava indifferente al culto, eppure attentissima: sguardi appena, appena ammiccanti, di chi approvava i meccanismi della festa, le tappe come le attese, il suo incedere lento; uomini che non s’univano alla preghiera, ma contemplavano la folla, e poi sembravano passare il testimone della staffetta ad altri uomini, che parevano la fotocopia dei primi, sempre indifferenti e al tempo stesso assorti, custodi delle strade, padrini delle botteghe, vigilanti delle atmosfere.E la santa patrona – Agata, bellissima, amata dai catanesi, simbolo di purezza e di fedeltà – in ostaggio di un intero popolo, prigioniero di un sentimento d’amore, irretito da regole d’onore, mai del tutto comprese nella loro scellerata origine, eppure tanto infiltrate da avere pervaso qualunque espressione dello stesso rito religioso.E’ vero: occorreva fermarle quelle processioni. E l’aveva minacciato il vescovo, e l’avevano detto tanti preti, ma alla fine a chi spettava la decisione, dentro ad una festa che era religiosa, ma pure cittadina? E che tristezza vedere quelle sante e quei nostri martiri in ghingheri; tutti ingioiellati, pieni di lustrini, dentro un’esplosione di mortaretti, petardi, fuochi, esplosioni, rumori tanto lontani dalla Mistica eppure così intrecciati nelle preghiere e nei canti.Per fortuna, ne ricordo altre di processioni in Sicilia: come quella della Via Crucis, tra le strade di un quartiere ghetto, animato solo di notte, quando caterve di cliente si riversavano alla ricerca dei viados e delle prostitute; il prete che portava la croce, e inizialmente il vuoto dietro di loro. Il peccatore autentico, quello che ha il senso compiuto della propria vita sbagliata, desidera ma si ritiene indegno del perdono di Dio; e dopo le prime fermate, qualcuno che faceva capolino, e la presenza che incoraggiava gli altri ad uscire dei pertugi delle case, e la processione gradualmente si affollava degli ultimi, in preghiere bisbigliate che non avevano occorrenza di megafoni dentro cui urlare la propria esibita fede.Sono un segno anacronistico le processioni? O un modo per manifestare in modo collettivo, partecipato, la propria fede? L’ultimo, forse, visto che la frequentazione alle Messe sembra ormai più un’adesione di reduci, che non una gloria che unisce le genti di una comunità che si professa cattolica e che, numeri alla mano, dovrebbe vantare partecipazioni straordinarie, e ci si dovrebbe alla fine domandare i motivi reali di tante e tante latitanze. Oggi c’è chi, davanti a fenomeni di mafia, ’ndrangheta, camorra, propone di sospendere e annullare le processioni. E, partendo da lì, di abolire qualunque festa religiosa. Non deleghiamo queste scelte ai nostri preti. Non per proteggerli dalla mafia, perché il martirio è scritto nel dna di ciascuno che si professi cristiano, come hanno insegnato don Pino Puglisi e don Giuseppe Diana. Semmai diamo ai preti l’opportunità di riscrivere le regole delle feste, i contenuti, di portare i nostri simulacri dove suggeriscono loro e non dove impongono i portantini delle confraternite. Il mio sogno oggi è assistere ad una processione che rompa argini e confini: che sosti nelle mense del povero, nei dormitori pubblici, nei centri d’accoglienza dei profughi, nei luoghi dove muoiono assiderati dai rigori invernali i barboni ed i senza tetto, nelle fabbriche chiuse per mancanza di lavoro, nei quartieri ghetto, un lungo corteo od anche corto ma senza giurisdizione di parrocchie, che rimetta la Chiesa nel cuore dei problemi sociali, che sparigli e che tenga lontano nei fatti, e non solo nelle coscienze, gli scomunicati e i portatori di malefiche dannazioni.Una Processione senza gioielli e fumosità esteriori, silenziosa ed umile. Che rimetta al centro di tutto, non i canti, non le litanie, non i riti, e neppure le consuetudini e le tradizioni, ma la proposta evangelica. Un po’ per essere profeti, come diceva don Leandro Rossi. E tanto per non spegnersi dentro alle rinunce.

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