Non si può abbandonare Napoli

Scrivo da una città del profondo Nord, una città di confine. Anche qui, Napoli raccontata sulle prime pagine per un’altra tragedia. Un ragazzo di sedici anni ucciso e un carabiniere di ventidue anni indagato. Sempre sulle prime pagine le reazioni della famiglia e della gente , lo stato delle indagini. Poi arriverà la cronaca dei funerali. Un vita spezzata nella stagione di sogni, di cui non si conoscono i colori, e un’altra vita giovane che non può che essere entrata nell’angoscia. La giustizia farà il suo corso ma la giustizia è una cosa seria, non è vendetta e non si realizza perché qualcuno va a marcire in un carcere. Con la cronaca, hanno immediatamente preso il via analisi e commenti su radici, ragioni, strategie di una criminalità organizzata che si chiama camorra. Poco, in proporzione, si racconta di quanti, soprattutto sul piano educativo e culturale, da anni sono impegnati in prima linea, cioè a diretto contatto con i luoghi della violenza e della intimidazione, per proporre e realizzare percorsi di speranza, di legalità, di cittadinanza. Scrivo da una città del profondo Nord, una città di confine. La sofferenza di una città del Sud che vive ogni giorno la sfida tra l’umanità di un popolo e la disumanità di gruppi criminali è avvertita e condivisa anche qui. Non c’è distanza quando il dolore irrompe nella vita della gente ovunque essa si trovi. Certo, c’è anche chi nel valutare i fatti di cronaca nera che accadono al Sud rimane così fortemente legato al palo dei pregiudizi e della superficialità che non s’accorge che quel palo è piantato sul terreno del nulla. Rivedo, avendo avuto la possibilità di percorrerne giornalisticamente qualche tratto, la strada del coraggio della Chiesa di Napoli, da sempre in uscita. Nei quartieri dove c’era chi umiliava e ancora c’è chi umilia gli altri con il sopruso e la minaccia questa Chiesa ha posto e tiene ben piantate le tende dell’educazione alla solidarietà, alla legalità, al coraggio. È una presenza viva sul territorio, fatta di gente, di ragazzi giovani e adulti che con parole e fatti di Vangelo mantengono robusto e bello il tessuto umano. E si lavora in questo cantiere di umanità con una creatività di cui Napoli è maestra. C’è anche chi rischia in questo cantiere: basta parlare con i giovani delle parrocchie e delle associazioni cattoliche per rendersene conto quando, ad esempio, parlano delle loro sedi fatte oggetto di sfregi e insulti. C’è chi è morto in questo cantiere: don Peppino Diana, ucciso ne 1994 dalla camorra perché per amore del suo popolo non poteva tacere. Con altre vittime della criminalità non rappresenta un simbolo e ancor meno un mito ma è un testimone che bussa alla porta della coscienza. Sono queste persone a dire che nei quartieri napoletani abitano la speranza, la fiducia, la responsabilità. È un abitare difficile che chiede una condivisione non solo della città. La Chiesa, il laicato cattolico, ambienti culturali ed educativi di Napoli hanno sempre alzato la voce per chiedere agli uomini e alle donne della comunicazione di non raccontare la città solo proponendone i due estremi: la pizza e la camorra, il mandolino e i rifiuti. C’è molta umanità da raccontare anche per evitare che passi il messaggio qualunquista che “solo a Napoli certe cose possono accadere”. La tragedia di questi giorni, ripropone dunque questioni fondamentali e pone non solo alla città di Napoli ma a tutto il Paese le domande più profonde sulla morte e sull’angoscia di due giovani. Non si può abbandonare Napoli in questa ricerca e in questa sofferenza. Napoli ha certamente la forza di rialzarsi e riprendere il cammino. Ma la bellezza, non solo estetica, di un Paese si vede nel suo abbraccio a una città ferita che, per questo, avrà ancor più forza e coraggio di stare in piedi davanti al male. Scrivo da una città del profondo Nord, una città di confine.

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