Non perdere un altro made in Italy

È in pieno corso la battaglia per la conquista della Parmalat da parte del colosso caseario francese Lactalis. O della controffensiva che si vorrebbe targata “made in Italy”, per il possesso di un’azienda che è un caposaldo del settore latte in Italia, e che ha 1,8 miliardi di euro nella propria musina. I francesi hanno scalato l’azienda nel sostanziale disinteresse delle eventuali concorrenti italiane e del Governo stesso, che si è accorto della possibilità che l’Italia perda un’altra sua gemma dell’agroalimentare solo dopo che lo scippo era quasi avvenuto. Da lì affannose contromosse (una normativa ad hoc che permetta il consolidarsi di una cordata italiana, il tentativo di coinvolgere banche e aziende tricolori) nel nome anche di una reciprocità che la Francia non concede quando si tratta di perdere i propri gioielli. Chiamali stupidi. C’è quindi in ballo un discorso di reciprocità, ma pure una linea filosofica che bisognerebbe fosse chiara per tutti. Stante il fatto – non scontato – che alcuni settori sono considerati più o meno da tutti gli Stati come “strategici” (esempio energia) e quindi soggetti ad un controllo più o meno occhiuto da parte degli Stati, si pone un dilemma: lo Stato (la politica) deve fare opera attenta di vigilanza nelle compravendite di aziende di certe dimensioni? Oppure si lascia la questione alle forze del libero mercato, e chi ha soldi compra e chi vende incassa? La prima scelta permette di non farsi scappare dalla stalla certi buoi preziosi; ma anche di far fuggire dal mercato certi investitori esteri altrettanto preziosi, che già hanno poca voglia di spendere nel sistema-Italia. La seconda lascia le questioni in mano a chi ha soldi e idee da spendere a prescindere dalla nazionalità; ma rischia di fare la fortuna solo del gruppetto di azionisti che incassano, magari depauperando una realtà che dà lavoro a migliaia di italiani ed è collegata a molte altre aziende. Ad esempio i francesi (e non solo loro: anche noi, a volte) hanno la tendenza di spostare i centri decisionali delle aziende acquistate in terra francese, chiudendo quelli locali. Poca roba se si tratta di latte; tanta roba se si tratta di banche. Ora: Parmalat sarebbe solo l’ultima delle gemme di un settore – l’alimentare – che è il vero punto di forza della nostra economia e, con la moda e la Ferrari, il miglior biglietto da visita dell’Italia nel mondo. Stiamo parlando di un settore che fattura 125 miliardi di euro l’anno, i cui utili però finiscono in buona parte all’estero. Già, ormai il nome del marchio è rimasto italiano; i padroni sono spesso stranieri. Per rimanere tra i formaggi, i francesi di Lactalis hanno già da tempo nelle loro mani i marchi Galbani, Locatelli e Invernizzi. Insomma, i formaggi d’oltralpe si sono da tempo divorati quelli nostrani, quelli che finiscono sui banchi della grande distribuzione organizzata.La birra, poi... I baffoni dell’udinese Moretti sono in realtà i baffi olandesi della multinazionale Heineken; la birra Peroni sarà pure nata nel 1846, ma dal 2003 fa parte del colosso sudafricano SabMiller, insieme con l’altrettanto celebre Nastro Azzurro. Se invece pasteggiamo ad acqua, si sappia che le multinazionali straniere da tempo hanno fatto incetta di marchi celebri delle nostre minerali: a cominciare dalla blasonatissima Sanpellegrino che, con Acqua Panna, arricchisce le casse della svizzera Nestlè; mentre Coca Cola ha investito in Basilicata nel marchio Lilia.Andiamo avanti. I gelati dell’Algida sono italiani nel nome, americani nella proprietà Unilever, mentre quelli della Motta si giovano del cioccolato svizzero Nestlè. Rio Mare, Manzotin e Palmera sono marchi dell’olandese Bolton (come Smac, Omino Bianco, Wc Net...); mentre il colosso alimentare Star è stato venduto dalla storica famiglia lombarda Fossati al gruppo spagnolo Gallina Blanca. Altro nome di prestigio è quello dell’umbra Buitoni, finita con la Perugina a dar baci e utili alla Nestlè. Pure gli spagnoli si danno da fare nello shopping alimentare in Italia. La Sos immette il suo olio nelle bottiglie marcate Bertolli e Carapelli, così come negli stabilimenti della romana Fiorucci salami e dipendenti stanno imparando lo spagnolo, dato che dovrebbero finire nelle mani e tasche del Campofrio Food Group. E la bresaola Rigamonti non solo si fa con i quarti di zebù brasiliano, ma anche con i soldi della brasiliana Jbs.Bisognerebbe berci sopra, per non piangere lacrime amare. Solo che anche qui si casca male. Esclusa la poco alcoolica e la pochissimo italiana birra, si potrebbe puntare su un buon Martini, piemontese di origine ma ora con l’inflessione cubana, visto che sta nelle mani della multinazionale Bacardi (che è cubana solo di origine, in verità). E che ai grandi gruppi americani, australiani o francesi non venga la tentazione di fare shopping vitivinicolo in Italia: rastrellerebbero in men che non si dica splendidi vigneti e floride aziende di gran nome, ma con spalle assai ristrette.

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