Non c’è più lavoro, Italia addio

Li vedo ogni mattina di buonora nella piazza principale del mio paese, le mani in tasca, la sigaretta tra le labbra a smorzare la noia e il primo freddo d’autunno. Sono albanesi e romeni rimasti senza lavoro: carpentieri, muratori, pontisti, piastrellisti, tutti a vario titolo una volta occupati nel settore edile, spesso con contratto regolare, ora disoccupati chi da un anno, chi da due, chi addirittura da tre o più. L’edilizia anche qui è ferma, salvo qualche ristrutturazione non si costruisce più nulla, le imprese hanno licenziato e licenziano, i primi sono gli immigrati, chissà perché, forse perché sono i più facilmente licenziabili.Eccoli allora lì, dalla mattina al tramonto, sulla strada anzi sulla piazza, ad attendere non so che: qualcuno che li aiuti, qualcuno che offra loro un qualsiasi lavoro, magari a giornata, una qualsiasi promessa, una speranza. Discutono tra loro, spesso animatamente, ma si capisce che non stanno litigando. Anzi. Tra le comunità albanese e romena qui in paese c’è stata sempre una certa rivalità, non se la intendevano affatto, ognuno per conto suo. Adesso nella difficoltà sono diventati amici, sono tutti sulla stessa strada, sulla stessa piazza, a far niente. Per fortuna ci sono le donne. I più fortunati sono gli sposati. Sono le mogli che mandano avanti la famiglia. Lavorano da badanti, a ore (7 euro l’ora) nelle case o nei negozi a far pulizie, nei ristoranti come lavapiatti o cuoche, quasi sempre in nero. Un migliaio di euro al mese lo riescono a racimolare, per mangiare, ma non basta per pagare l’affitto, soprattutto se in casa ci sono figli. Ogni tanto interviene il Comune: distribuisce gli aiuti dell’Unione europea, pasta, biscotti, riso, o provvede a pagare bollette pericolosamente arretrate, luce, gas, acqua, soprattutto se ci vanno di mezzo bambini. Qualche famiglia ha fatto ritorno in Albania o in Romania, altre ci stanno pensando.Anche Afrim, Fatbardhe, Iglis e Jonis sono partiti, a malincuore, ma sono partiti. Ma il loro non è stato un ritorno, hanno preso un’altra destinazione: la Germania. Non ce l’hanno fatta, non ce la facevano a rimanere in questa sorta di incantesimo malefico nel quale erano rimasti incastrati. Lui, Afrim, senza lavoro da tre anni; lei, Fatbardhe, impegnata tutti i giorni a sostenere la baracca, due ore la mattina come badante, poi la pulizia delle scale in tre palazzi, altre ore di pulizia in case e negozi, il sabato, la domenica e altre feste comandate a lavare piatti in un ristorante con orari fino a tarda notte. I figli, spesso inconsapevoli ma coinvolti, a scuola: Iglis al primo anno di liceo artistico, Jonis la quarta elementare. Cinque mesi di affitto arretrato da pagare, la proprietaria che non sopportava più. Sono partiti, hanno deciso di rimettersi in gioco, di ritentare l’avventura. Ad Hagen in Germania, dove Afrim ha una sorella e il cognato conduce una piccola attività di restauro mobili. Sono partiti. Afrim con la quasi certezza di un lavoro presso un’industria di nastri isolanti, Fatbardhe con la promessa di occupazione in un ristorante italiano. Tutto regolare. Sono partiti, ed è stata una partenza affrettata, quasi una fuga, delusi da questo Paese che pure li aveva accolti ma non ha saputo trattenerli. Delusi, ma senza rancore. Qui nel paese, quello piccolo, con la minuscola, avevano trovato amici, si erano ambientati. Quattro valigie inzeppate, riempite in fretta, tutto quello che avevano, coperte, lenzuola, vestiti. Il resto, poco altro, è rimasto. Ed è rimasta a terra anche una valigia: il bagaglio superava il peso consentito, troppo costoso aggiungerla. Sono partiti tutti e quattro, senza conoscere una parola di tedesco, ancora una volta a misurarsi con l’avventura di un viaggio e una meta senza alcuna certezza ma solo speranze. Questa volta più fortunati. Hanno potuto fare il viaggio in aereo, low cost. Sempre meglio che la “classe turistica” nella barca degli scafisti.

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