Noi siamo donne donne, non “uomini”

In principio erano Lady Oscar e la Principessa Zaffiro, ma loro almeno lo facevano per il regno. La modella americana Elliott Sailors, superati i trent’anni, età ahimé non più così fresca per il settore, non trovando spazio nella moda si è riciclata come modello. Uomo. Ha tagliato i capelli cortissimi, si è fasciata il seno, ha abilmente messo in evidenza i tratti un po’ duri del suo bel viso e, soprattutto, ha approfittato a piene mani della confusione di genere.Così, usando astuzia, intelligenza e perfetta conoscenza delle regole del gioco che fanno sì che gran parte della moda sia ostaggio di un cliché (non sei “cool” se non sembri gay), Elliott ha cominciato a frequentare i casting riservati agli uomini spuntando sempre un contratto. A parte l’ovvia considerazione che questo la dice lunga sulla mascolinità media dei modelli scelti, possibile che il modello androgino sia così radicato nella pubblicità da poterci proporre sovrapposizioni così incoerenti? Possibile che una donna debba negare la sua femminilità per vendere camicie di flanella e jeans cargo agli uomini? C’è da dire che l’idea della Sailors, ampiamente supportata dal marito che ne intravede la luminosa carriera e sorride quando i passanti pensano che siano una coppia gay, non è così nuova. Prima di lei un’altra modella, Casey Legler, già nuotatrice olimpica per la Francia, è stata la prima donna ad aver sfilato esclusivamente come modello maschile: “È più facile lavorare come un uomo che come una donna”. E le due donne seguono pari pari, solo in senso contrario, le orme di Andrej Peijic, l’efebico modello australiano che calca indifferentemente le passerelle di moda donna e moda uomo, meritando elogi entusiasti per la sua “angelicità”. Salvo rarissime eccezioni la moda non ama le donne per come sono, le preferisce inconsistenti, eteree, aguzze, inespressive. La mascolinizzazione dei modelli femminili, e la femminilizzazione di quelli maschili, tendono a rendere tutto tristemente uniforme a un unico e inesistente modello irreale. Qui non è in gioco la questione del sentirsi liberi di vestire in un modo o nell’altro, ma è piuttosto il veicolare surrettizio di un’ideologia che omologa, ammantandolo di apparente indifferenza. Sì, perché non è che gli stilisti o i fotografi dei casting ignorino di trovarsi di fronte un uomo o una donna. Lo sanno benissimo e giocano sullo scambio.La modella che pensa di prolungare la carriera perché ha messo nel sacco il circo della moda spacciandosi per uomo, finge di non capire che è ancora una volta lei ad essere sfruttata per vendere di più. Perché l’androginia vende, almeno fino al prossimo “terzo genere”. In fondo, il mondo della moda è il tassello luccicante di un puzzle più grande, che si basa su una distorta evoluzione della percezione dei confini di genere e secondo cui la vera uguaglianza si realizza solo se non se non vi è alcuna differenza.Ma non si era scese in piazza per dire che noi donne eravamo orgogliosamente “differenti”? La parità sociale, politica, culturale, da perseguire ogni giorno e in ogni ambito, non può passare attraverso la negazione di ciò che siamo e di come siamo. Non siamo diversamente uomini, siamo donne. Vorremmo non si facesse confusione sul punto.

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