Nessuna difesa per il carcere

Per chi è ultimo, per chi è profugo, per chi è detenuto, agosto è il più crudele dei mesi. Non è un caso che, da anni, alla feria d’agosto i parlamentari italiani più illuminati si rechino in visita nei penitenziari - case circondariali e di reclusione - del territorio nazionale. In carcere, in agosto, si diradano le visite, le attività si rarefanno; aumentano - di contro - gli atti di autolesionismo e i suicidi, le ossessioni e i fantasmi si dilatano in uno spazio incapace di contenerli.È bene, dunque, ancora una volta parlare di carcere, ora che cala la presenza di persone ristrette e internate, in formale osservanza con i parametri europei, così come cala il silenzio sulle condizioni inumane e degradanti degli istituti di pena (denominazione eloquente), ove donne e uomini detenuti patiscono comunque il sovraffollamento (meno di tre metri di spazio a disposizione), ma anche l’isolamento nella cosiddetta “cella zero”, o “cella liscia”, assolutamente vuota (illegale ma presente in diversi penitenziari): senza branda, senza latrina, senza finestra, affinché il recluso non possa farsi male, anche a costo di perdere il senno.Su quali fondamenti, e con quali prospettive, parlare di carcere? L’idea di partenza è offerta dalla condivisione di due documenti, dall’adesione a due campagne di impegno civile promosse in queste settimane estive: l’appello “Per qualche metro e un po’ d’amore in più”, della rivista di informazione carceraria «Ristretti Orizzonti», e il manifesto “No prison”, presentato il 14 luglio a Firenze dai suoi estensori, Livio Ferrari (direttore del Centro di ascolto francescano di Rovigo) e Massimo Pavarini (docente di Diritto penitenziario dell’Università di Bologna).L’appello di «Ristretti Orizzonti» (www.ristretti.org) è un atto d’accusa contro la mortificazione degli affetti in carcere, che colpisce le persone detenute e umilia i loro familiari: dieci minuti la settimana per le telefonate e sei ore al mese per i colloqui, preceduti da attese estenuanti e spesso senza ragione, effettuati in spazi grigi e anch’essi affollati. Una proposta di legge per la liberalizzazione delle telefonate e per lo svolgimento dei colloqui in spazi riservati, già sottoscritta da diverse decine di parlamentari nel 2002 e ora ripresentata con forza, perché – si legge nell’appello - «carceri più umane significa carceri che non annientino le famiglie». Una proposta per tutelare gli affetti, salvaguardare la relazione e la genitorialità, rendere più lieve la quotidianità faticosa delle donne degli uomini detenuti. Una proposta di civiltà, perché la legge è espressione della civiltà dell’istituzione, non della vendetta privata e fine a sé stessa.Il manifesto “No Prison” (www.noprison.eu) è invece una riflessione coraggiosamente abolizionista in tempi di «cultura patibolare», nei quali la paura di essere vittima porta a innalzare le richieste di pena e detenzione. Secondo i suoi estensori, la pena privativa della libertà, il carcere, ha «clamorosamente fallito ogni finalità preventiva», perché la reclusione dei rei «non produce sicurezza dei cittadini nei confronti della criminalità, ma nel suo operare viola sistematicamente i diritti fondamentali, cioè attenta alla dignità umana dei detenuti e delle loro famiglie». Non solo. Il carcere alimenta la recidiva (pari al 67% se la detenzione è scontata dietro le sbarre, al 17% se in misura alternativa; fonte: «Il Sole 24 ore») ed «educa alla delinquenza e alla violenza»: ottiene così l’effetto opposto alla propria finalità prima, di prevenzione e contrasto della criminalità. Ancora, «viola i diritti fondamentali e compromette gravemente la dignità umana dei condannati», rappresentati in prevalenza da «soggetti deboli e marginali […] capri espiatori di una società fondata sulla disuguaglianza».In questo orizzonte, la grande maggioranza delle persone che sono oggi in carcere potrebbe essere efficacemente controllata e responsabilizzata «attraverso opportunità pedagogiche ed assistenziali, attraverso modalità lavorative e formative, attraverso risposte economiche, attraverso opportunità risarcitorie». Il carcere, dunque, dovrebbe essere extrema ratio per la criminalità più pericolosa, assolutamente residuale rispetto al totale delle persone detenute.La violazione dei diritti umani fondamentali non dipende soltanto dall’insufficienza degli spazi, ma - come affermano i Radicali Italiani - «è legata a numerosi profili della detenzione, come ad esempio le condizioni igieniche, il riscaldamento degli ambienti, l’ingresso di aria e di luce naturale, l’accesso alle docce, la disponibilità di acqua calda e di acqua potabile, il numero di ore trascorse all’interno delle celle, la effettiva possibilità di intraprendere - attraverso attività di studio, di formazione o di lavoro - quei percorsi di reinserimento sociale indispensabili per dare attuazione alla finalità rieducativa della pena sancita dall’articolo 27 della nostra Costituzione».Il punto è questo: le attività di studio, di formazione o di lavoro. Sono queste, infatti, che determinano la qualità di un’istituzione carceraria. Il carcere è, per definizione, un’istituzione totale: si manifesta all’esterno per ciò che vuole apparire, non per ciò che è realmente.Che le porte blindate si aprano alla città, anche ogni sera, per condividere concerti di musica jazz, cene della legalità, esibizioni di cheerleaders, di per sé non giova ai detenuti (ad altri, forse, non a loro), se non per la possibilità di trascorrere qualche ora in più fuori della cella.Giovano invece le attività di studio – lo studio ancora rappresenta una possibilità di riscatto, dal momento che i nostri giovani più qualificati ora emigrano all’estero -, che consentano per esempio di conseguire la licenza media, il diploma di istruzione superiore, la laurea. Cosa molto difficile nei penitenziari italiani, ove i libri sono centellinati non in base a una regolamentazione nazionale, bensì alla discrezionalità delle singole direzioni. La protesta di Marcello Dell’Utri, al quale era permesso di tenere in cella non più di due volumi per volta, è andata a buon fine soltanto grazie alla notorietà di Dell’Utri medesimo. Se Eduard Limonov, oppositore di Vladimir Putin, nell’isolamento della fortezza di Lefortovo ha preservato la propria salute mentale grazie alla lettura dell’opera integrale di Lenin (tra le poche consentite!), più semplicemente, per il Detenuto Ignoto – che spesso non ha la possibilità neppure di scegliere un libro di proprio gusto - la lettura rappresenta una via di fuga verso l’esterno, verso la vita. Giovano, tanto, le attività di formazione: formazione professionale soprattutto, che possano preparare il reinserimento sociale delle persone ristrette, dando loro nuove competenze, nuove opportunità, nuove sicurezze in quel “fuori” nel quale, una volta libere, stentano a orientarsi. Giovano infine, davvero tanto, le attività lavorative: favoriscono l’autonomia (anche economica), consentono al tempo di trascorrere con minor lentezza, rafforzano l’autostima.Il carcere onesto (il carcere perfetto non esiste) ha dunque il dovere di promuovere attività di studio, di formazione o di lavoro valide ed efficaci. Il resto è folclore, simpatico magari, ma folclore. In Italia, purtroppo, le carceri ove si praticano tali attività, le carceri oneste, sono pochissime. Che si discuta e si investa, allora, su come rendere le carceri italiane più oneste e rispettose del dettato costituzionale. Prima di procedere, come auspica il manifesto “No Prison”, alla loro abolizione.

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