Ma perché l’Italia è piena di corrotti?

Corruzione, riciclaggio, evasione fiscale, abusi d’ufficio, tangenti, frodi,fondi neri, finanziamenti illeciti, distrazione di fondi pubblici, usura e abusivismo finanziario, manipolazione degli istituti del diritto societario, abusivismo commerciale, elusione, falsificazione di bilanci non sono solo intenzioni, anzi, i segnali confortanti non mancavano. L’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri di un pacchetto di misure urgenti in risposta al degrado spezzoni delle cronache che ogni giorno leggiamo sui quotidiani. Sono una parte delle articolazioni assunte dalla criminalità economica sui territori, nelle istituzioni, nella politica, tra individui e imprese; comportamenti di indegnità morale dissociati e non dal momento giudiziario e dalla responsabilità penale, che assediano imprese e cittadini e corrompono la qualità della vita. Siamo un Paese ad alta corruzione. In Europa siamo in zona retrocessione con Bulgaria e Grecia, nel mondo siamo al pari della Columbia e della Tunisia. Ciò nonostante è incerto che qualche editorialista politico-economico prenda di petto il problema su un grande giornale. Ed è assolutamente improbabile che i politici (non tutti, s’intende!) non assumano in tv e in Parlamento atteggiamenti di assoluzione dell’illegalità. Si dice che la corruzione fa parte del sistema, è un costume tipicamente italiano. Non è vero. Gli scandali scoppiano periodicamente in Germania, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e in tutti quei Paesi dove il denaro alimenta modelli di corruzione. Solo che in quei paesi c’è una severa giustizia e l’opinione pubblica non dimentica e non perdona, mentre da noi la “giustificazione” segue strategie più sottili. Così la piaga, giuta alla putrefazione, rischia di stravolgere non solo le fasce di popolazione e i settori economici più deboli ma lo stesso mercato. Nelle varie forme delittuose, attività criminali e attività evasive sottraggono risorse, le deviano. Favoriscono attività e imprese rispetto ad altre attività e imprese, accreditando un ingiusto vantaggio competitivo che mette in pericolo la libertà del mercato. Costituisce un limite allo stesso sviluppo, un peso sul benessere generale. Fare statistiche sul valore economico delle attività criminali e sui relativi costi per la collettività è intrinsecamente difficile. Le stime variano ampiamente, sia per la definizione sottostante, sia per i metodi usati, per forza di cose indiretti. Un rapporto del maggio 2012 dell’Istat ha stimato che il valore aggiunto prodotto nell’area del “sommerso economico” (riferito alla sola produzione di beni e servizi, escluse le attività più “propriamente” criminali), fosse compreso tra 255 e 275 miliardi di euro, valori pari, rispettivamente, al 16,3 e al 17,5 per cento del PIL. Da parte di Eurispes, una indagine condotta sulla base di fonti di varia natura (presso famiglie e imprese e dati della vigilanza tributaria) ha valutato che l’economia criminale raggiunge l’11 per cento del PIL. Si tratta di numeri che dovrebbero quanto meno farci ragionare sull’urgenza della questione, da combattere per dovere civile, ma non solo per questo. All’interno del mercato e dei suoi presidi isituzionali, soluzioni pragmatiche utili per contrastare l’economia illegale e per “gestire ilo rischio” di inquinamento delle attività economiche sane. L’economia illegale impone alla collettività un prezzo troppo alto, divenuto un vincolo alla stessa crescita del Paese. Sorprende venga trattato da alcuni economisti come marginale o di secondaria importanza, attenti a porre attenzione più alla spesa sociale. Si ignorano la misura con cui corruzione, evasione, criminalità economica (ed anche elusione) distorcono i processi di allocazione delle risorse; di come tutto ciò finisce per premiare il contatto con l’amministratore o il funzionario disonesto, il direttore o l’A.D. di banca, piuttosto che sostenere l’innovazione, l’investimento, la qualità, l’efficienza.La recessione offre condizioni favorevoli ai sodalizi criminali. A cominciare dal fatto che gli squilibri finanziari inducono un numero sempre maggiore di individui e imprese a ricercare rimedi che rendono il sistema produttivo vulnerabile al mondo della criminalità pronta ad estendere il proprio controllo sull’economia legale. In generale, la ridotta capacità di attrazione dell’economia legale apre spazi a quella criminale o semplicemente illegale. In questa, pare stringersi il nodo dell’economia irregolare e il consolidarsi dell’abitudine all’illegalità. Tendono a proliferare attività economiche “schermo”, che hanno lo scopo di consentire a operatori illegali di nascondersi sia agli operatori legali d’impresa che subiscono il danno sociale ed economico, sia alle istituzioni giudiziarie. È un rischio reale che va combattuto. In particolare nel settore finanziario e bancario, dove le interferenze di tipo illecito e criminale (che possono verificarsi anche senza la consapevolezza delle vittime), hanno la forza di mettere in pericolo la stabilità degli operatori coinvolti e la libertà dello stesso mercato. Tra le tante manifestazioni quella del “riciclaggio” è l’aspetto maggiormente preoccupante. Diffuso soprattutto al Nord dove le infiltrazioni mafiose e camorristiche si sono consolidate da anni ed hanno eletto veri e propri presidi economico-finanziari, in qualche caso con il coinvolgimento di uomini della politica. L’economia reale sopporta oltre che i costi diretti, i costi indiretti procurati dall’attività criminale diffusa. In primis il credito, non sempre capace di mantenersi immune dalle ingerenze politiche e clientelari o comunque estranee a obiettivi imprenditoriali. Dove, tra l’altro, è presente un altro fenomeno, altrettanto importante e pervasivo, costituito dalle insolvenze, molte procurate dalle difficoltà delle banche di valutare correttamente la qualità dei soggetti che chiedono prestiti, ma molte favorite anche dalla non trasparenza dei rapporti con la clientela. Dove l’illegalità è diffusa e l’opacità prepondera, è quasi inevitabile si accentuino le asimmetrie informative tipiche dell’attività creditizia. Se l’offerta del credito deve fare i conti con maggiori oneri impropri, sono le imprese e l’economia a risentirne. Oltre al fatto che su tale terreno possono risultare favorite le interferenze – lecite e illecite – da distorcere, alla fine, lo stesso processo di allocazione delle risorse. È evidente che la disomogeneità nei trattamenti tra banche e imprese può nascondere forme improprie. La crescente attenzione dedicata al fenomeno, a livello nazionale, europeo e internazionale da parte degli organismi di controllo, è la testimonianza della diffusa consapevolezza di questo fenomeno.

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