Siamo arrivati, forse, all’ «ultimo Capodanno» delle province italiane. Sull’altare della modernità nel 2014 probabilmente saranno sacrificati quegli enti che evocano antiche e incomprensibili storie di signorie, castelli, ghibellini e dialetti, diventate inutili alla luce della vorticosa corsa del mondo competitivo e globalizzato. «Riforma incostituzionale» è il leit motiv che tambureggia, a torto o a ragione, nei 107 palazzi provinciali contro l’ammainabandiera deciso a Roma.«Il Cittadino» è diventato quotidiano venticinque anni fa, portando avanti con rigore una linea nata molto prima, anche per dire che le province soprattutto in Italia hanno un senso eccome, e che si può essere intelligenti, competitivi ed europei stando in provincia e abitandola in modo consapevole. La posta in gioco nel tema province si-province no non è tanto sapere dove finisse nel Settecento il vescovado superiore o inferiore, oppure dove passi la linea della dieresi sulla «u» fra un dialetto e l’altro. Queste possono ben essere cose per erudite accolite di storici locali, da riservare a momenti ben precisi che comunque fanno cultura, turismo e valore aggiunto tipicamente italiano. La posta in gioco più immediata è e sarà con chi andarsela a prendere, al limite, per le strade penosamente butterate durante l’inverno, le scuole sfregiate di graffiti, l’illuminazione stradale azzerata o i servizi sociali che se si consorziano si fanno in modo più efficace. Tutte queste pecche possono essere sanate, ci si dice, o da una Regione veramente attenta alle sue microarticolazioni, oppure da tecnici provinciali (non politici!) ben istruiti in merito dalle regioni; oppure infine da sindaci che trovino il tempo di andare, o di mandare qualcuno in loro vece, in un’assemblea metropolitana (ne sono previste venti!) che ragioni in un’ottica collettiva e non chiusa dentro le mura del broletto . Ma può funzionare davvero?Il grosso problema è che le Regioni, o almeno molte regioni, sono strutturalmente sbilanciate in termini demografici ed economici, la Lombardia è una di queste. E non c’è legge elettorale che possa sanare il deficit di rappresentanza delle zone meno «pesanti». Il fatto è che dove vive più gente più si conta. L’anno scorso, più o meno di questi giorni, il Partito Democratico si inerpicò nel terzo turno delle primarie in vista del voto politico di febbraio 2013 . Si trattava di scegliere quali parlamentari mettere in lista attraverso il voto degli iscritti e dei simpatizzanti. Stante il meccanismo del «porcellum» che impone(va?) le liste bloccate, si cercava di sanare il vulnus ricorrendo ai gazebo installati nei municipi sotto una neve furibonda. I candidati milanesi del sud est (Melegnano e dintorni) si affannarono a correre di qui e di là per mobilitare preferenze: servì a poco perchè quelli di Milano città, smuovendo una frazione percentualmente più piccola ma presa da un qualsiasi circondario metropolitano di circonvallazione (dove quindi vive più gente), gli passarono davanti per numero assoluto di preferenze. Neve permettendo, hai voglia a trovare voti a suon di posti da tremila abitanti quando un solo quartiere milanese ne fa cinquantamila. E’ una questione matematica che anche l’attuale legge regionale, e probabilmente ogni futura legge regionale, non sanerà: il Lodigiano, e zone paragonabili, hanno e continueranno ad avere i loro 2/3 consiglieri regionali su un’assemblea di ottanta; che li eleggano a preferenza o con quote riservate. Si dirà che chi conta poco continua a contare poco anche se ha una provincia dalla sua. Il Pirellone, anche mandandoci un manipolo di «punteros» locali, val bene una provincia che fa acqua da tutte le parti. O no? In parte è vero, ma forse è meglio avere una cosa – la provincia - che forse funziona male piuttosto che una cosa che non esiste proprio. Dopodichè, forse anche le province devono anche fare il loro esame di coscienza sul tipo di atteggiamento che hanno tenuto in questi anni nel puntare i piedi contro la loro estinzione, quasi fossero novelli dinosauri dell’architettura istituzionale. Un paio di anni fa, quando il professor Monti capeggiò la cura da cavallo sulla semplificazione degli enti intermedi, affidata al ministro Patroni Griffi, in fondo propose l’accorpamento, non l’abolizione secca. Però si sollevarono molte diatribe: pisani contro livornesi, senesi contro fiorentini, Lodi si con Cremona no a Mantova, e via dicendo. Oggi, col senno di poi, si dice che due anni fa le province furono sì disponibili al dialogo e ad un razionale ragionamento in termini di fusione, non di abolizione. Eppure non andò esattamente così, se è vero che oggi l’Unione province italiane ostenta come trofeo l’incostituzionalità anche dell’accorpamento. Bisogna stare attenti allora a non dare l’impressione di una rigidità assoluta, di una preclusione totale a qualunque millimetrico movimento dando così fiato inevitabilmente ai più vieti luoghi comuni sulla «casta» che salva se stessa. Certo, l’idea dell’accorpamento interprovinciale è affogata non solo per gli ostracismi delle basi, cioè i territori provinciali stessi, ma forse perchè «in alto» qualcuno ha deciso o visto l’opportunità di fare il salto di qualità, purgando in modo ancora più salato i parlamentini locali.Da parte sua «Il Cittadino» resta fermamente convinto che abolire o «svuotare» come si suol dire, le province, continui a rappresentare un grande errore e una mossa che allontanerà dalla nostra terra non tanto la conoscenza del dialetto e dei castelli, quanto appunto quell’ «ufficio lamentele e recapiti» con le letterine per i politici ecc., di cui sopra si diceva. In linea astratta, alla luce di una genesi storica e identitaria del Lodigiano e zone contermini, la cosa sensata e «moderna» apparirebbe riaprire gli atlanti dell’amministrazione asburgica, che funzionava almeno sul piano tecnico – non così su quello dei diritti civili e politici – e considerare l’idea per nulla balzana di un’unione fra lodigiano e cremasco. Con un ragionamento aperto, anche se probabilmente impossibile, sull’area melegnanese che nel Lodigiano sarebbe la zona più popolosa, con Milano la «campagna». Ci si augura che questo spazio per ragionare di accorpamenti esista ancora e la macchina che deve scrivere il trattino secco sulla parola «provincia» si possa fermare. Magari senza sondaggi di opinione sulla «popolarità dell’ente provincia», che francamente convincono poco, ma con cifre e argomenti solidi.
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