LODI Una famiglia di infermieri insieme in lotta contro il virus

Matteo Filippone, papà Enzo e mamma Luciana, durante la pandemia hanno lavorato tutti e tre in terapia intensiva

Lui Matteo, 28 anni, lavorava nelle cure palliative a domicilio, per Santa Chiara. Il papà e la mamma, entrambi 50 anni, con una storia d'amore partita tra i banchi della scuola d’infermieri, invece, lavoravano in endoscopia e chirurgia. In piena pandemia, quando la terapia intensiva scoppiava di malati, non hanno avuto esitazioni. «Noi qui cosa ci stiamo a fare?». Si sono messi a disposizione della rianimazione e il coordinatore infermieristico Damiano Pochetti li ha subito arruolati. E così è iniziata la loro avventura insieme, non solo dentro casa (in realtà, in quel periodo, dentro non stavano tanto insieme, perché ognuno aveva la sua stanza isolata), ma anche in ospedale. «Papà no, ma mia mamma, appena entrava in turno - racconta il giovane - veniva a vedere dov’ero, come stavo, come avevo passato quelle ore lontane da lei». La preoccupazione era alle stelle. «Io mi sono proposta - spiega mamma Luciana -, sapevo che i malati in rianimazione erano tanti. Avevo già una formazione in area critica: ero stata 18 anni in terapia intensiva, dal ’96 al 2013. Avevo chiesto un “biglietto di andata e ritorno” però. Speravo, dentro di me, che fosse un periodo breve. Quando sono entrata in terapia intensiva il primo giorno di lavoro, la notte tra il 14 e il 15 marzo, ho capito che non sarebbe stato affatto un periodo breve. Dal letto numero 5, mi guardavo intorno, lo scenario che si apriva, con i 27 malati tutti pronati e ventilati, era uno scenario da guerra».

Matteo aveva organizzato dei percorsi separati intorno alla casa. Uno sporco per quando arrivavano dall’ospedale e l’altro pulito per quando uscivano. Un’organizzazione “nosocomiale” perfetta. Papà Enzo, un’esperienza decennale in 118, si è trovato a gestire una situazione diversa da tutte le altre: «Ho visto tanti pazienti morire quando ero in 118, anche bambini - dice -, ma erano distribuiti nel tempo. Così tanti tutti in una volta, è stato terribile». Essere loro 3 insieme, però, li ha aiutati a «mantenere la lucidità». «Non pensavo - dice Enzo Filippone - che dopo 30 anni avrei potuto rimettermi ancora in gioco professionalmente»

. E anche per Matteo la scoperta della rianimazione è stata professionalmente importante. «Quando l’ospedale ha aperto il bando - spiega - ho partecipato, anche se ho proseguito a seguire comunque le persone in cure palliative, a domicilio, dopo il turno. Non le volevo abbandonare. Non avendo una preparazione in area critica mi sono rimesso a studiare. Ho partecipato al concorso e sono stato assunto a tempo determinato. Prima di venire mi sentivo inutile. Ero a fare “la bella vita” sul territorio e gli altri qui a rischiare. I miei genitori non volevano che venissi in rianimazione, ma io sono venuto lo stesso». Nelle cure palliative, ovviamente, Matteo era abituato a gestire la morte, ma era anche abituato «a farlo sempre insieme ai parenti. Ho visto morire tante persone, anche giovani - dice -, ma mai nessuno è morto da solo. Qui è stato più brutto». In casa Matteo, essendo il più giovane, era quello dei 3 che cercava di «sollevare l’umore generale della famiglia». E adesso che mamma e papà sono tornati nei loro reparti, Matteo è rimasto lì, in rianimazione, e spera di non cambiare reparto mai più. Ieri è arrivato in terapia intensiva, a salutare, uno degli ultimi malati trattati: «Quando sono qui, in rianimazione - raccontano i 3 infermieri - i malati sono tutti in fin di vita, vederli tornare dopo è una grande soddisfazione».

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