LODI L’ex prefetto Cardona nominato all’Agenzia nazionale per le vittime dei reati di mafia

La decisione del Consiglio dei ministri: a Lodi ha gestito l’emergenza Covid nei mesi più duri

Nella giornata di mercoledì il Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’interno Luciana Lamorgese, ha deliberato il conferimento dell’incarico di Commissario per il coordinamento delle iniziative di solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso al prefetto Marcello Maria Orione Cardona. Già questore di Catania e di Milano, Cardona ha lavorato a Lodi come prefetto per 19 mesi e ha affrontato l’emergenza Covid. Di seguito l’intervista concessa al direttore de «il Cittadino» Lorenzo Rinaldi in occasione del suo addio a Lodi lo scorso gennaio.

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LODI - L’intervista, nello studio del prefetto di Lodi, al secondo piano del palazzo di governo di corso Umberto, inizia in maniera inusuale. Perché Marcello Cardona, 64 anni, già questore di Catania e Milano, prefetto di Lodi negli ultimi 19 mesi, esordisce così: «Una prima cosa la voglio dire io, prima delle domande. Voglio testimoniare la mia immensa gratitudine per “il Cittadino”, un giornale molto radicato nel Lodigiano e che ha avuto una funzione negli ultimi mesi inimmaginabile, anche per lei direttore e la sua redazione, per quelle che erano le notizie da veicolare. “Il Cittadino” è stato addirittura più efficace rispetto alle ordinanze: va sottolineato il ruolo di questo giornale e di tutti i giornalisti, sul campo, tutti i giorni, in tutti i momenti. Vi auguro di continuare a essere un punto di riferimento per questo territorio, perché avete dimostrato di essere essenziali per la vita sociale».

Marcello Cardona lascia Lodi per Roma. Il Consiglio dei Ministri lo ha designato Commissario per il coordinamento delle iniziative di solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso. A Lodi è stato il prefetto dell’emergenza Covid. Impossibile non partire dagli ultimi dieci mesi.

Cosa stava facendo quando, lo scorso 20 febbraio, è stato avvisato del primo caso di Covid a Codogno?

«Ero a Roma per un impegno istituzionale, erano le 23.30, mi chiamò Angelo Borrelli, capo dipartimento della Protezione civile per avvisarmi dei primi contagi a Codogno. Dopo aver vissuto mediaticamente, dalla Cina, il diffondersi del virus, arrivò questa notizia e ho percepito immediatamente la gravità della situazione».

Cosa ha fatto dopo quella telefonata?

«Non ho chiuso occhio quella notte. Ho chiamato immediatamente Francesco Passerini, presidente della Provincia di Lodi, nonché sindaco di Codogno. Ho contattato le forze dell’ordine e in particolare il comandante provinciale dei carabinieri Massimo Margini per andare subito a Codogno a presidiare la situazione. E ho parlato, quella notte stessa, con il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese: per evitare che la situazione degenerasse occorreva organizzarsi in tempi rapidi».

Quando è emersa l’ipotesi di creare la prima Zona Rossa?

«La mattina successiva partecipai a una riunione alla sede della Protezione civile a Roma per capire cosa occorreva fare. Oggi è facile parlare, ma in quel momento, il 21 febbraio, eravamo di fronte a una totale novità. Inizialmente pensammo di individuare e isolare solo le persone che avevano avuto contatti con il paziente 1 e sviluppare indagini».

Cosa vi ha fatto cambiare idea?

«Nell’arco di poche ore la questione è esplosa in maniera drammatica e ci ritrovammo in Regione, a Milano, con il ministro Roberto Speranza e il professor Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità: in quella sede venne palesata una situazione catastrofica, perché i contagi aumentavano in maniera esponenziale. Dunque con provvedimento del presidente del consiglio si definì la prima Zona Rossa e in prefettura a Lodi, alla presenza anche del ministro della Difesa Lorenzo Guerini e del presidente della Provincia, affrontammo le questioni operative e individuammo il numero dei comuni da far rientrare, quelli in cui i casi erano ormai numerosi».

Come ha vissuto quelle prime settimane?

«Devo essere onesto: siamo stati impegnati a gestire la Zona Rossa, ma anche a togliere dai nostri comuni l’etichetta di unitori del Paese. Le confesso che quando delimitammo la prima Zona Rossa, gli 11 comuni dai quali non era possibile uscire, si verificarono problemi concreti, perché nessun trasportatore voleva più venire da noi, non dico a Codogno, ma in provincia di Lodi. E noi avevamo la necessità di approvvigionare il territorio. Sono state ore convulse».

Come ne siete usciti?

«Devo ringraziare tra gli altri il presidente di Assolombarda, Carlo Bonomi (oggi presidente di Confindustria, ndr) e il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, che sono intervenuti in maniera importante sulle loro associazioni di categoria».

Come ha reagito la popolazione?

«C’era un clima di smarrimento, paura, disorientamento, preoccupazione sanitaria. Non dimentichiamo che già a dicembre 2019 si erano registrati numerosi casi di polmonite. E non possiamo nascondere, in quelle ore, la grande preoccupazione per la tenuta dei nostri ospedali, visto che quello di Codogno è stato immediatamente chiuso e il Maggiore di Lodi ha registrato un aumento imponente delle presenze».

Il numero di sanzioni per chi è uscito dalla Zona Rossa è risibile. I lodigiani hanno dimostrato grande civiltà…

«Concordo. Ma non erano le camionette e i militari a impedire che la gente uscisse, la popolazione aveva realmente paura e non si muoveva. Ogni giorno che passava ci trovavamo però a dover affrontare nuovi problemi, anche sul versante economico, perché nella prima Zona Rossa insistono aziende di grandi dimensioni, alcune delle quali, penso a Mta di Codogno, servono grandi case automobilistiche. Senza contare le esigenze sociali, pensiamo solo agli anziani da accudire. La nostra piccola prefettura ha avuto gli occhi di tutta Italia addosso e ha lavorato eroicamente».

Lei ha lavorato in prima linea, ha contratto il Covid, è stato ricoverato in ospedale. Quali ricordi ha?

«A metà marzo mi hanno confermato di essere positivo e a quel punto pensavo di potermi isolare nel mio alloggio a Lodi, in prefettura, in attesa di tornare negativo, perché non avevo sintomi preoccupanti. In realtà nell’arco di pochi giorni la situazione è precipitata, come è successo a tantissime persone, e sono finito in ospedale, in terapia intensiva. Mi hanno trasferito a Milano, al San Raffaele: posso considerarmi una persona fortunata perché vicino a me la gente moriva a ripetizione, di ora in ora».

La pandemia in corso da dieci mesi sta mettendo a dura prova la tenuta sociale e il tessuto economico locale. Come intervenire?

«Serve rigore per evitare che la criminalità organizzata approfitti della debolezza delle imprese per infiltrarsi. A Lodi stiamo monitorando la situazione dalla scorsa primavera e in qualche caso siamo già intervenuti con provvedimenti interdittivi. Stiamo lavorando con la questura, i carabinieri e soprattutto la guardia di finanza. Non possiamo allentare la pressione».

Ci sono reali segnali di preoccupazione?

«Non ci sono elementi di concretezza, ma la storia insegna che nelle fasi di debolezza imprenditoriale i capitali illeciti vengono immessi nel tessuto economico delle aree più sviluppate del Paese e il Lodigiano, nella parte sud della Lombardia, è una di queste».

La popolazione avverte come allarmanti i reati contro il patrimonio, pensiamo ai furti in casa, che violano l’intimità delle famiglie. Sul fronte della sicurezza che territorio lascia?

«I reati contro il patrimonio e la persona, oggettivamente, sono tenuti sotto controllo. Ci sono certamente questioni da risolvere, penso alla occupazione della cascina Belfuggito di Sant’Angelo, per la quale è previsto lo sgombero e si attende solo che il sindaco si faccia carico dei minori, come prevede la norma».

Cosa serve al Lodigiano per fare un salto di qualità?

«Questa è una terra straordinaria, collocata nel centro dell’Europa, tra Milano e Bologna e ottimamente collegata da autostrada e linea ferroviaria dell’Alta velocità. Il vero salto di qualità è pensare a livello europeo. Ci sono aziende che già operano in questo contesto, è però necessario che anche altre realtà aprano i propri orizzonti, penso al settore agroalimentare e caseario. Faccio un esempio: abbiamo formaggi di grande qualità, dobbiamo imparare a esportarli. E poi c’è il tema della qualità della vita».

A cosa allude?

«Il Lodigiano può offrire abitazioni, verde e in generale una qualità della vita che a Milano non è possibile ritrovare. La pandemia porterà a un cambiamento della visione abitativa e questo territorio deve essere lungimirante, deve farsi trovare pronto. La domanda immobiliare crescerà, bisognerà organizzare l’offerta adeguata».

Prima della pandemia stava lavorando a un’idea ambiziosa, portare a Lodi la sede italiana dell’Agenzia europea per la sicurezza alimentare. È un progetto ormai naufragato?

«Il progetto è ancora attuale. Ne ho già parlato al nuovo prefetto di Lodi Giuseppe Montella, che arriva da Bergamo. Abbiamo già avviato una interlocuzione con le tre Università che garantiscono il progetto sotto l’aspetto tecnico scientifico. Ne ho già parlato al ministro della Salute Speranza, il quale ha recepito in modo serio il progetto, ne ho parlato al ministro Guerini e al ministro Lamorgese. Le strutture per ospitare l’Agenzia in modo adeguato e immediato a Lodi non mancano, ora tutte le istituzioni lodigiane devono lavorare in sinergia perché questa Agenzia porterebbe ricchezza, posti di lavoro e garantirebbe un salto di qualità al territorio. Il futuro va in questa direzione». (Lorenzo Rinaldi)

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