L’occasione fa l’atleta irriverente

Ultimi preparativi a Rio de Janeiro per quelle che saranno le Olimpiadi più sorvegliate di ogni tempo. Il timore di atti terroristici ha indotto il governo brasiliano a mettere in atto misure straordinarie di sicurezza a protezione del villaggio olimpico riservato agli atleti provenienti da ogni parte del pianeta. Per certi versi questo clima mi ricorda le tensioni che accompagnarono i giorni della tragedia delle Olimpiadi di Monaco del 1972. Ma le Olimpiadi rappresentano per un atleta il sogno di una carriera, il riconoscimento di tanti sacrifici a cui ognuno si sottopone per avere la possibilità di entrare nella storia sportiva. Bastano queste poche riflessioni per spigare il pianto davanti alle telecamere di Alex Schwazer, già campione olimpico nella marcia a Pechino 2008, escluso dai giochi perché colpevole di essere risultato, per la seconda volta, positivo al controllo anti-doping. Il nostro atleta però, si ritiene vittima di un complotto e per questo, assistito dai suoi legali e dal suo allenatore, ha deciso di dare battaglia fino in fondo prima che sia chiusa la partita della partecipazione ai Giochi Olimpici di Rio. Fanno riflettere anche le lacrime e la disperazione di Marco Tamberi che si copre il volto con le mani a causa di quella disgraziata caviglia infortunata dopo il salto in alto nel suo ultimo meeting di Montecarlo. Un infortunio che gli preclude la definitiva speranza di partecipare ai giochi. Reazione ancora più dura arriva anche dal mondo sportivo russo la cui squadra olimpica rischia di essere esclusa dalle prossime Olimpiadi con l’accusa di «doping di stato». L’accusa è di quelle pesanti. Secondo i giudici sportivi gli atleti russi nelle ultime Olimpiadi invernali di Sochi del febbraio 2014 hanno fatto uso di anabolizzanti per ottenere prestazioni esaltanti e salire sul podio più alto. Saggia è comunque la soluzione adottata dal Comitato Internazionale Olimpico che lascia la decisione finale ad ogni singola federazione a tutela degli atleti onesti. Dunque lo sport come palestra di vita. Lo sport con le sue regole e le sue leggi impone comportamenti a cui tutti gli atleti devono sottostare. Come si fa a dar torto a questo principio. Durante i recenti mondiali di calcio abbiamo assistito a messaggi e a gesti di fair play. La pratica sportiva offre a tutti la possibilità di trasmettere i grandi valori della vita. La disciplina sportiva gioca un ruolo importante per trasmettere valori come rispetto dell’avversario, spirito di squadra, riconoscimento del merito, valorizzazione del singolo, sana competizione tra singoli o tra gruppi e tutto in nome di un corretto e rispettoso confronto. Sono solo alcuni dei valori che accompagnano i ragazzi nella crescita. E’ giusto ricordarli soprattutto ai tanti genitori che accompagnano i figli nelle gare domenicali e che spesso dimenticano di essere i primi e privilegiati educatori. Come non biasimare il comportamento di certi genitori autori di scene poco edificanti ai bordi del campo o nel dopo partita dove l’incoraggiamento si trasforma in incitazione e questa in istigazione urlata finalizzata a “regolare i conti” con l’avversario. Come pure pessime e sconsiderate sono le reazioni di certi calciatori che si ritengono ingiustamente colpiti dalle decisioni arbitrali e affidano alla fragorosa protesta della curva la mal celata risposta. Costoro sanno benissimo di essere sotto i riflettori. Per adulti, giovani e bambini sono degli idoli, sono modelli di vita, esempi di comportamento che la quotidianità mutua dal campo, sono speranze di chi vede in loro il proprio futuro. Ecco perché il fair play va sottolineato quale modello comportamentale nei rapporti in campo, nelle reazioni con gli arbitri, nella concitazione dello scontro. Il fair play, dunque, come atto di fede. I cartellini gialli o rossi sono richiami al rispetto delle regole, ma soprattutto al rispetto degli avversari e di chi le regole è tenuto a farle rispettare. Curioso l’episodio accaduto a fine giugno in Svezia durante una gara di calcio professionista tra due squadre locali dove un giocatore è stato espulso per doppia ammonizione. E fin qui nulla di strano. Quando uno rimedia due gialli, il rosso è d’obbligo. Ed è quello che ha fatto l’arbitro. La parte curiosa è la motivazione del secondo giallo. Un peto. Avete capito bene. A causare l’espulsione dal campo di gioco del terzino della squadra che giocava in casa, è stato un rumoroso peto che l’arbitro ha sentito bene e lo ha ritenuto una «provocazione deliberata oltre che un comportamento offensivo e antisportivo». L’episodio, del resto, è stato candidamente ammesso dall’interessato che si è giustificato, attribuendo al «forte mal di pancia originato da un eccessivo accumulo d’aria» la causa dell’inopportuna flatulenza. Galeotto fu dunque quel «mal di pancia» che gli ha rovinato la giornata. Insomma il nostro eroe, malato di pancia (oltre che di testa), pare sia stato vittima del tradimento “meteoristico”. Ma chi gli era vicino ha confermato la versione dell’arbitro, percependo il comportamento del compagno di gara come «una chiara provocazione, un fatto volontario e un comportamento inappropriato». E’ come dire che è venuto meno in quel momento il rispetto verso la persona, verso l’arbitro che gli contestava una punizione. Un calciatore che non medita sulle conseguenze del suo gesto, ritenuto dall’arbitro volontario, non può trovare nessuna giustificazione per quel gesto di disprezzo verso la persona, prima ancora che verso l’arbitro. Tutti i quotidiani sportivi ne hanno parlato come il primo episodio che si ricordi nella storia dello sport quale causa di un’espulsione, quasi a difendere il calciatore ingiustamente espulso. Sarà pure il primo e curioso episodio che la storia dello sport ricordi, sta di fatto che è un modo volgare e irriverente per esprimere dissenso verso una decisione arbitrale. L’essere umano, a differenza degli animali, è razionale. Ce lo ricorda il grande Aristotele che definisce l’uomo un «animale dotato di ragione» e a differenza degli animali, che comunicano mediante suoni e movimenti, l’uomo comunica il suo pensiero mediante la parola e questo gli consente di compiere azioni che sono confacenti alla sua natura razionale. Nel nostro caso alla parola il signor «mal di pancia» ha preferito il “suono” e il “movimento”. Poteva ricorrere a un atto di fede per dimostrare l’efficacia della ragione. Ma ha preferito altro. Che paghi!

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