L’occasione da non perdere

Nel corso degli ultimi mesi, i due temi (o meglio i due termini), di gran lunga più ricorrenti, nei discorsi di politici e rappresentanti di categoria, sono stati, senz’ombra di dubbio, quelli della “crisi” e della “crescita”. Tutti, a chiacchiere, si sono cimentati nel denunciare la lunga parentesi negativa, paragonabile ad una micidiale pandemia che ha colpito con maggior virulenza le economie europee più fragili, cercando scuse, rivolgendo accuse, addossando ad altri le colpe in larga parte attribuibili alla propria incompetenza (vogliamo, per una volta, chiamarla solo così?) e ad invocare, reclamare, auspicare, una nuova fase di sviluppo senza mai seriamente indicare uno o più strumenti per catalizzarla.Il Governo dei tecnici, per propria parte, dopo aver dato una ruvida rassettata ai conti, ha ripetutamente accennato a diversi scenari che potessero preludere al riavvio della macchina produttiva e del lavoro, non nascondendo, peraltro, difficoltà e divergenze interne o esterne.All’improvviso, però, dentro la voluminosa risma di progetti che s’incrociavano e si alternavano con le proposte di riforme strutturali, e con le polemiche sulle presunte trattative stato-mafia, ecco irrompere imperiosamente due eventi gravi, complessi, acutissimi, che clamorosamente interrompono, per diversi giorni, le esercitazioni dialettiche sulle tasse, sullo “spread”, sui bond, sulle alienazioni di beni demaniali, sulla riforma della giustizia, sulle intercettazioni telefoniche, sulla corruzione, sul “porcellum” e sul “mattarellum”.In quel di Taranto esplode, come un kiloton di tritolo, la vicenda del disastro ambientale sistematicamente perseguito, per anni, dall’Ilva e, nella terra dei Nuragici, riemerge l’annosa, a lungo dimenticata, questione della Sulcis.Ad un primo esame emotivo e superficiale il prorompente debutto di questi due “intrusi” (o forse, non trattandosi di inediti, sarebbe più corretto parlare di “repliche”) potrebbe essere interpretato come la classica goccia che fa traboccare il vaso, o il devastante getto di vetriolo sopra la piaga. I presìdi organizzati dalle maestranze, gli striscioni dispiegati sulle più alte torri dello stabilimento, il frenetico accorrere di ministri, segretari di partito e leaders sindacali, le reprimende corali degli economisti di consolidata nomea o di fresco “conio”, gli studi e i rapporti degli esperti settoriali, sembrano imboccare quella sconsolante deriva.C’è, tuttavia, chi, e tra costoro il redattore di queste righe, riesce a pensare in positivo e vede con chiarezza nell’eruzione di entrambi i casi, un’opportunità imprevista e benefica, una sorta di acciarino in grado di innescare, finalmente, il germe di un nuovo, originale modello economico adatto a coniugare efficacemente lo sviluppo sociale, economico ed occupazionale del Paese con la tutela e la salvaguardia ambientale.Proviamo a spiegare meglio ciò che intendiamo.Dopo i primi commenti largamente pleonastici scaturiti da valutazioni incomplete e non documentate, cominciano a farsi strada, per l’acciaieria pugliese, idee più serie ed attente. I dipendenti coinvolti sono ben oltre diecimila. L’importanza strategica dell’insediamento non può essere ignorata, come non possono essere ignorate le richieste del Gip, severe e implacabili nella rigorosa osservanza dello specifico costrutto legislativo. Gli interventi riparatori sono complicati, perchè bisogna farli senza sospendere la produzione (il fermo produttivo risulterebbe irreversibile). In metafora, è il ben conosciuto cambio dei cavalli con la carrozza in corsa. Le valutazioni a valle di tutto quanto emerso sono decisamente negative e non mancano pareri a sostegno della definitiva chiusura degli impianti. Certo che se i pedissequi convincimenti di chi poi alla fine deve decidere, tengono esclusivamente nel conto le solite stime dei costi e dei ricavi, le difficoltà per avallare i massicci investimenti appaiono davvero di arduo superamento. Chi espone e chi accetta tali conclusioni ragionieristiche, dimostra, tuttavia, scarsa capacità di vedere oltre la mera logica delle cifre contabili. Un investimento con nove zeri a Taranto indurrebbe ricadute di duplice portata. Da un lato, il pacchetto progettuale ben strutturato e polivalente, metterebbe in movimento una miriade di commesse per opere edili primarie ed accessorie, di rivitalizzanti ordini per tante industrie con know-how italiano, di contratti per gli assemblaggi, per i collaudi, per progetti hi-tech mirati allo studio e all’istallazione di ridondanti sistemi di controllo, per le periodiche manutenzioni, per gli smaltimenti sicuri delle scorie e dei rifiuti, il tutto con il coinvolgimento di imprese ben strutturate, di professionisti preparati, di tecnici specializzati, e di tanta manodopera generica. Da un altro lato, un intervento di siffatta portata, rimodulato anche nei comparti dell’efficienza, della sicurezza, della razionalizzazione e della produttività, oltre alla conservazione dei posti di lavoro, assicurerebbe a Taranto aria pulita, priva di polveri grigiastre e fumi acidi, acque e terreni finalmente liberi dall’inquinamento, sanità paragonabile con le medie generali, ciò costituendo un inestimabile valore aggiunto da redistribuire tra i profitti e non tra le passività degli anni a venire.Su Carbonia e sulla miniera sarda, l’unica esistente in Italia, potrebbero essere imbastite argomentazioni del tutto speculari, con la sostanziale aggiunta di un’importante considerazione: non è concepibile accostare la protesta di chi corrode i propri polmoni a quattrocento metri sotto terra, con quella di coloro che passeggiano nei corridoi termo condizionati di un ministero. E’ vero: il carbone del Sulcis è di pessima qualità, ma sono mature e disponibili tecnologie che ne permettono l’utilizzo senza nocumento per la natura. Non più tardi di un mese fa, su queste stesse colonne, abbiamo segnalato l’inaugurazione della più grande centrale elettrica a carbone nel mondo, costruita in Germania con l’avallo di politici e ambientalisti, capace di immettere in rete energia sufficiente a rifornire un milione mezzo di famiglie. I suoi giganteschi turbogeneratori non funzionano ad acqua di colonia, ma bruciano giudiziosamente lo stesso combustibile che in passato ha ucciso tanti piccoli spazzacamini. I raffinati accorgimenti, a tutto campo adottati, hanno passato gli esami più severi, dimostrandosi largamente in linea con i protocolli internazionali sul risparmio energetico, sulla modernizzazione reale e intelligente e sulla riduzione dei gas serra in atmosfera. A consuntivo i soldi spesi sono stati tanti (oltre due miliardi e mezzo di euro), ma hanno creato crescita e concreto ottimismo in tutta la RenoWestfalia. Qualcuno è in grado di fare altrettanto, applicando il ben noto teorema delle “nozze con i fichi”?Sarebbe però una vera iattura se, dopo aver faticosamente reperito risorse, magari attirando capitali esteri, per finanziare questi due grandi progetti, qualcun’altro pensasse di reiterare i vecchi metodi per lucrarci sopra, truccando le gare d’appalto, corrompendo i costruttori, arraffando tangenti, provocando la malefica moltiplicazione dei costi.Ecco il vero, antico ed irrisolto, italico problema, esprimibile mediante la riformulazione del celebre pronunciamento post-risorgimentale: L’Italia è fatta. Ora bisogna cambiare la testa agli italiani.

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