L’icona di un Paese normale

La maestra è viva e lotta insieme a noi. Chi ha conosciuto la scuola elementare del Dopoguerra sa bene che quelle maestre e quei maestri costituivano la spina dorsale di un’istituzione dello Stato (al pari delle Forze Armate o della Magistratura). Oggi la scuola elementare è più o meno ridotta, nella percezione comune, a un servizio pubblico dovuto. E ovviamente c’è una bella differenza, non solo percettiva, fra istituzione e servizio pubblico. Di sicuro, parliamo di rilevanza sociale degli attori e della loro capacità di partecipare alla costruzione della vita pubblica. In questa regressione sociale vanno ricercate le ragioni per le quali il maestro e la maestra sono malpagati e sottoposti a un duplice riduzionismo sociale. Da un lato si pensa: chissà come sono messi male per “ridursi” a fare i maestri... Dall’altro si osserva: e cosa ci vorrà mai per fare i maestri… Ecco, appunto, l’ultimo anello di un circuito malato. A chi affidiamo i nostri figli e i nostri nipoti, il bene più grande di cui disponiamo? A dei falliti? Non saremo noi ad avere qualche rotella fuori posto se consideriamo la scuola elementare come un parcheggio orario per i nostri cuccioli? Abbiamo proprio dimenticato tutto dei nostri primi anni di scuola? Della formidabile spinta a crescere che la scuola elementare ci ha garantito? Dell’imprinting che maestre e maestri ci hanno trasmesso? Della capacità di relazionarci che quegli anni straordinari ci hanno cucito addosso, proprio grazie all’instancabile fatica quotidiana dei nostri maestri? Della capacità di cura che ci hanno trasferito…Ecco perché fa specie che un presidente del Consiglio, il più moderno e sempre connesso, il più social e visionario, non faccia altro che parlare della maestra. È lei l’interlocutrice ideale, ad esempio, quando parla degli euro in più da mettere in busta paga a partire da maggio. Tecnicamente si chiama cuneo fiscale, molto più semplicemente parliamo di alleggerimento del peso delle tasse. Sostiene Matteo Renzi che quegli 80 euro in più al mese dovrebbero consentire alla maestra di poter comprare un libro in più, senza preoccuparsi troppo. Per un uomo di sinistra quale si autodefinisce il premier (che evoca sempre le sue radici negli scout cattolici) non può essere un caso la scelta della maestra come cittadino-lavoratore di riferimento. Di sicuro, non è una scelta casuale per un comunicatore nato come lui. Ebbene sì, lui indica la maestra e non l’operaio. Cipputi dovrà attendere, superato in curva dalla maestra di Pontassieve, destinata a entrare nell’immaginario collettivo di un Paese restituito alla normalità, dopo gli anni dell’overdose berlusconiana e della intristita consapevolezza dei professori al governo sotto lo sguardo occhiuto degli gnomi di Bruxelles.Ecco, un Paese normale può tornare a ricordare le proprie radici senza vergognarsi. Può restituire un ruolo centrale a chi sta in prima linea a produrre cultura ed educazione di base. Non è una concessione da libro Cuore. In tempi di nativi digitali farebbe ridere. E’ semplice consapevolezza: la vita di un popolo è costruita dalle persone che si spendono con serietà nel proprio ruolo, anche umile ma essenziale per la tenuta sociale. Sappiamo già cosa si prova a svegliarsi ogni mattina con l’incubo dello spread o con la minaccia di default del sistema Paese paventata da un governo straniero. Le maestre sono il termometro della nostra normalità. Perché ogni mattina accolgono i nostri bambini in un’aula scolastica e testimoniano che l’Italia è coraggiosamente pronta a vivere un altro giorno.Non possiamo sperare che la “maestra di Pontassieve” abbia la stessa fortuna della “casalinga di Voghera” nata dalla felice intuizione di Alberto Arbasino. Ma certamente le auguriamo lunga vita.

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