Lettera natalizia a un nipote

Caro Giovanni, c’è stato un tempo in cui l’asino di S. Lucia, affetto da una grave forma artritica, non riusciva a muoversi dalla stalla; le renne di Babbo Natale, affamate, vagavano nella tundra innevata alla ricerca di qualche lichene affiorante; la scopa della Befana, ormai priva di saggina che fungeva da timone, non era cavalcabile. A causa di tale acutissima crisi nel “settore trasporti”, le rotte notturne, terrene e celesti, erano deserte, i camini non venivano visitati ed i bambini non ricevevano doni, all’infuori di pochi biscotti caserecci, amorevolmente preparati dalle donne, utilizzando gli scarti della pasta per i ravioli di zucca. Per le strade, non tutte asfaltate, il traffico era scarso; alcuni carri agricoli, trainati da pazienti quadrupedi o da sferraglianti “melotte”, uno o due calessi, altrettante “Balilla”con le gomme consunte, diverse biciclette sovraffollate (ancora oggi mi chiedo come potessero montarle in tre) con i pattini dei freni assottigliati.

Non c’erano insegne e luminarie; non c’erano vetrine scintillanti; i centri commerciali dovevano ancora essere inventati e la bottega di Gasperina, oltre alle rare scatole di sgombro e sardine, ordinatamente allineate sugli scaffali accanto alle confezioni di candele steariche, offriva tranci di stoccafisso ammorbiditi da lunga, diuturna permanenza dentro la bagnarola zincata, colma d’acqua salmastra.

C’era già lo “spread” e, immaginando il tuo sguardo interrogativo, intuisco che ti devo una spiegazione. La parola deriva dall’inglese (americanizzato), ma aveva un altro significato rispetto a quello odierno.

Lo “spread” di quell’epoca voleva intendere la differenza tra la tavola dei “ricchi” (pochissimi), al centro della quale troneggiava il tacchino, e quella dei “poveri” (tantissimi) dove, sporadicamente, comparivano tre noci (nerastre non sbiancate con il perossido) e mezza stecca di fichi secchi.

La rappresentazione di un’epoca così misera potrebbe evocare sentimenti di mestizia e infelicità, ma niente, credimi, è così lontano dal vero.

Quasi tutti vivevano giornate prefestive largamente vuote di beni tangibili, ma stracolme di progetti, di speranze e di sorrisi.

Il nonno, dopo un intero pomeriggio, tornava a casa con un fascio di legna ed il suo volto, deformato da un’emiparesi, esprimeva soddisfazione: non sarebbe mancato l’allegro scoppiettio del fuoco e nessuno dei nipoti avrebbe battuto i denti per il freddo.

Il postino aveva già consegnato alla nonna la lettera “par avion” della sorella minore che da trent’anni viveva a Detroit: vi aveva trovato, oltre alla banconota da un dollaro, la seconda calza grigia di nylon che faceva il paio con quella già ricevuta a Pasqua, insieme ad un’ondata di affetto, mai sopito.

Mamma e papà, giovani, perciò straripanti di energico ottimismo, si volevano bene ed amavano la loro nidiata. Ciò li teneva sereni, allegri ed occupati e li affrancava da qualsiasi pensiero negativo o pur lontanamente melanconico.

Caterina, Arturo e gli altri ragazzini (cui Elsa Morante farà in seguito “salvare il mondo”) riempivano l’aria di rumorosi richiami, di fragorose risate; organizzavano interminabili partite a palla prigioniera; costruivano festoni negli androni delle case, usando mandarini al posto delle lampade, ed avevano un gran da fare con la preparazione del presepe, preceduta da lunghi interventi di riparazioni e restauri.

Qualche lacrima? Sì, per una pecorella tripode, per un foruncolo dolente o per un passeggero mal di pancia causato dall’inconsueto, eccessivo consumo di mele rinsecchite.

La settimana bianca? La sciarpa firmata di seta? Il “Trilogy” dardeggiante? Il Rolex Explorer II? L’iPod nano 6G configurabile come iWatch? Roba da extra-terrestri, magnificamente e per intero surrogata da un esilarante giro di tombola con i vicini, uno scaldamani di lana grezza, un cerchietto di tenero ottone stentatamente forzato oltre la falange dell’anulare, un orologio di cartone con le ore in approssimativi numeri romani, un “telefonino” costruito con le latte vuote, collegate da un lungo intreccio di spaghi.

Come tutte le umane stagioni, anche questa, forse un po’ troppo idealizzata dai miei nostalgici stereotipi, ebbe finalmente (?) termine.

Il somaro, sottoposto ad una serie di vigorose infiltrazioni cortisoniche, si rimise in salute.

Le renne, riunite in cooperativa e ben rifornite di mangimi all’aroma composito di fieno ed erba medica, firmarono, tramite la rappresentanza sindacale, un vantaggioso contratto per prestazioni a termine con Babbo Natale.

La Befana comprò a rate una scopa elettrica a pile lunari ricaricabili e, tutti insieme, inaugurarono il nuovo corso delle consegne domiciliari di regali, santelucani, santeklausani ed epifaniaci ( mi piace inventare parole nuove).

Che il presente, stracolmo di automobiline telecomandate e di giochi interattivi, ma oscuro nelle prospettive, sia migliore o peggiore dell’ anticaglia prima raccontata, sarà qualcun altro a stabilirlo.

Io mi auguro che tu, insieme ai tuoi coetanei, possiate... “risalvare il mondo”.

Mi viene, tuttavia, un dubbio, Giovanni.

Forse il contenuto di questa letterina potrebbe suscitare polemiche di natura... politica (ormai si polemizza anche sul colore del buio).

Penso che la darò a tuo padre.

Deciderà lui se leggertela o cestinarla.

Ciao, dal tuo omonimo nonno

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