L’enorme debito pubblico italiano

Il debito pubblico è un impedimento alla crescita, una zavorra. Lo dicono in molti, quasi tutti. Cosa rischia un Paese che non lo tiene sotto controllo o non lo abbatte? Il default, illustrano quei commentatori finanziari che preferiscono parole esotiche all’italianissimo fallimento.Ma se i rischi sono quelli che gli (psico)analisti temono, se la solvibilità del Paese non è più tanto pacifica, se il rischio è cresciuto al punto di sgomentare; se è vero, come è vero, che l’Italia denuncia una perdita di capacità industriale, se il debito cresce più per il monte di interessi passivi da garantire, che non c’è ripresa e il rapporto debito/Pil è troppo elevato, che la creazione privata di denaro non macina, perché allora gli istituti di credito che recalcitrano sugli obblighi di riserva fanno incetta di titoli di Stato sapendo che ciò può compromettere la loro solvibilità in caso di default? In Italia e in Europa, un enorme debito pubblico viene assorbito dalle banche, riporta Il Sole 24 Ore. E ciò non può che rafforzare il « legame (potenzialmente vizioso) fra governi e istituti finanziari”. Che il debito pubblico sia argomento macchinoso, non è il caso di dirlo. Se n’è accorto anche il Comico che aveva annunciato di avere pronta la soluzione e l’ha subito dimenticata. Una quindicina d’anni fa, Ciampi, che certi meccanismi conosceva bene, assicurò: “In dodici anni l’Italia sconfiggerà il debito pubblico”. Ne sono trascorsi sedici... “Azzeriamo il debito”, cantava Jovanotti, ora non l’esegue più. Ogni italiano, riferiscono le statistiche, ha un debito “virtuale” di 34mila euro. Qualcuno ne fa motivo di polemica, ma la generalità dei cittadini non da soverchio peso alla cosa, se non quando vi sono interventi di contenimento della spesa. Non accade solo da noi. A dar credito alle recenti stime di MGI (McKinsey Global Institute) e a quelle elaborate dal Financial Times, su una cinquantina di Paesi (metà sviluppati e metà emergenti), tra il 2007 (anno della crisi) e il 2014 il debito mondiale è cresciuto di 25mila miliardi (25 trilioni).I paesi più industrializzati del mondo vivono sul debito, anche per finanziare spese ordinarie. La loro reputazione regge tutta sul danaro. Non è quindi un problema separato dell’Italia o della Grecia o della Spagna o del Portogallo o dell’Islanda. E’ anche di Paesi presentati come “virtuosi”. Il debito (dei governi, delle famiglie, delle imprese e delle istituzioni finanziarie) in tutto il mondo, ha raggiunto ormai la cifra record di 200mila miliardi. Col suo peso è arrivato al 286% del pil mondiale. Con il 400% il Giappone è il Paese più indebitato. L’Italia è al dodicesimo posto, con un rapporto del 259%. Peggio fanno economie delle quali si sente poco parlare: quella olandese al 325%, quella belga al 327%, la svedese al 290%, la cinese al 282%, la francese al 280%. Dati che non devono però indurre in errore: tra il 2007 e il 2014 il rapporto debito totale/Pil italiano è cresciuto del 55% : 47 punti a carico del debito pubblico, 3 punti delle imprese, 5 delle famiglie. Fatto 100 il 2000, il rapporto debito/Pil in Italia è passato da 158 a 156 nel settore privato e da 69 a 104 nel settore pubblico. Comunque, una immensa montagna di debito che continua a correre. All’interno del debito mondiale si scorgono, è vero, rilucenti incongruenze. Non è su questo che intendiamo richiamare l’attenzione, bensì sulla crescita smisurata, particolarmente grave in Usa e Gran Bretagna che hanno investito centinaia e centinaia di miliardi per rianimare le rispettive economie dopo le famose “bolle” speculative, e che ne potrebbero provocare altre. Ancora avanti con l’austerità allora? Il FMI dopo aver reclamato a gran voce il rigore, nel suo ultimo Rapporto annuale punta il dito contro le politiche di inflessibilità, accusate di portare in recessione le economie, ossia di provocare una flessione delle economie maggiore delle aspettative. Orbene, se anche FMI - che considera il debito “una minaccia alla stabilità globale” -, riconosce di aver sbagliato i conti e che l’austerità (tante volte da esso invocata) procura più guasti di quanto immaginato, ha ancora senso continuare nella richiesta ai Paesi di ridurre il proprio carico con politiche di bilancio restrittive? Che danno ne deriverebbe all’economia europea?Non è bello dirlo, tutto il mondo è indebitato fino al collo. Né possiamo dimenticare i 14-15 trilioni di dollari impegnati dai governi occidentali, per salvare dal disastro le istituzioni finanziarie da esse stesse procurato. Perché allora tiene duro la deleveraging, ovvero la riduzione delle esposizioni solo di alcuni Paesi?Una risposta (teorico-tecnica), naturalmente, c’è. Nel giudicare la situazione del debito, i “rigoristi” più che all’ ammontare assoluto guardano alla capacità di un Paese di provvedere al rimborso del debito e al pagamento degli interessi, prelevandoli dal Prodotto interno lordo (Pil), cioè dalla ricchezza lorda prodotta, senza tenere conto dei vincoli esterni che possono influenzare tale rapporto. I numeri del McKinsey Global Institute si prestano a molte altre riflessioni. Per esempio, la crescita globale rischia d’essere compromessa proprio dall’ indebitamento dei paesi più sviluppati, a tutto danno di quelli più deboli e poveri. Ergo, ma questo FMI non lo dice, servono nuovi modelli di comportamento governabili, in pratica una nuova architettura finanziaria globale. Cosa sulla quale il finanzcapitalismo, forte dell’ l’estensione e penetrazione planeraria raggiunta, sembra tutt’altro che disposto a correggere le storture più evidenti di un sistema che ha messo in piedi. Ma fin dove potrà reggere “la mega-macchina creata con lo scopo di massimizzare il valore estraibile sia dagli esseri umani sia dagli ecosistemi”?

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