Le chiacchiere montano in cattedra

Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan non ha incertezze: questa è forse la crisi peggiore dell’era capitalistica. Nessun dubbio, ci siamo dentro da sette anni. L’analisi tecnica non gli può certo dare torto. D’altra parte il nostro ministro dell’Economia è stato Direttore esecutivo per l’Italia del Fondo Monetario Internazionale, vice segretario generale dell’OCSE e poi capo economista fino a qualche anno fa. Chi meglio di lui può conosce le nostre sventure? Il guaio è che la peggiore crisi dell’era capitalistica è legata in Italia ad altre crisi precedenti – alle condizioni congiunturali e alle condizioni strutturali interne - che almeno dagli anni Settanta ci inseguono e sulle cui conseguenze politiche nessuno ha ancora ragguagliato a dovere.Sono cadute le ideologie storiche è vero, ma s’è instaurata l’ideologia mercatista-globalista. Ovvero quel “mondo unico, mercato unico, pensiero unico, uomo a taglia unica” con cui si è sostituito al liberalismo il liberismo, imponendo di fatto “un nuovo materialismo storico”. Tra il 2008 e il 2010 si è sfiorato il cataclisma. La tempesta non era improvvisa come quella delle scorse settimane a Genova. Si era accumulata da anni. Molti campanellini d’allarme erano suonati. Analisti economici in prima fila, avevano però espresso un’unica preoccupazione: rassicurare l’opinione pubblica. Con la complicità della politica, l’economia reale ha permesso all’economia di carta di diventare sempre più aggressiva e incontenibile. Giustamente si dice: non c’è produzione senza finanza. Vero, verissimo. Ma una finanza senza paletti e controlli, cioè non regolata, non è l’equivalente dei vantaggi ( delle merci prodotte). E’ una spirale che trascina tutti nella polvere. Tranne il fronte dei big banking, big business, big brother, big government che oggi vogliono far perdere il ricordo delle loro colpe, si distribuiscono fior di appannaggi e predicano austerità e rigore (alla gente comune). Oggi sappiamo tutti di far parte della economia dell’inganno. Bolle e balle vanno di comune accordo. Cambiate pure l’ordine dei fattori, ma il senso non cambia. A furia di suonare la viola d’amore - di inculcare che “il mercato avrebbe aggiustato tutto”- altro dogmatismo liberista (tutt’altra cosa del liberalismo) - si è evitato di individuare negli avvenimenti quanto della crisi è imputabile alla finanza, quanto all’economia e quanto alla politica. La politica ha dato man forte a gonfiare l’illusione di uno “sviluppo senza fine”. Un paradosso retorico. Adesso gli analisti di allora ci dicono che si erano sbagliati. O meglio, che erano stati equivocati. Che anche la ripresa (la famosa luce in fondo al tunnel) era stata una svista, e che forse non la vedremo a breve.Perché abbiamo sulle spalle problemi strutturali trascurati da mezzo secolo. E perché oggi la crisi si e allargata e allungata. Ma perché un “equilibrio” diverso non s’è cercato e realizzato è difficile che qualcuno lo spieghi. Per restare a livello locale, cioè lodigiano, c’è forse qualcuno che spieghi perché malgrado certe analisi territoriali e piani per l’economia del territorio non sia stato sortito un traguardo un po’ più rassicurante dell’attuale?Il guaio è che una alternativa a quel che c’è, o non c’è, o pare esserci e non esserci, nell’attuale complessità del sistema inducono a perdere di vista con il particolare gli obiettivi di fondo. Ma è chiaro che l’emergenza, proprio perché non la si vuole “subire”, si è giunti al punto in cui bisogna governarla. Tutti pensano di avere la soluzione. Poi basta una piccola perturbazione quantitativa (non qualitativa) e tutti spingono in ritirata, prendono tempo, si affidano al ben visibile populismo, unico fenomeno oggi non discernibile. Da vent’anni e più l’Italia non cresce. Le uniche attività a prosperare sono state quelle di carattere speculativo.A parte la manovra che ha permesso al Paese di entrare (a certe condizioni) nell’Euro, per il resto si è sempre andati avanti con l’auto-inganno: “manovrine” di governo che ci hanno tenuti a galla spostando continuamente l’onere dei debiti e del loro riequilibrio in avanti nel tempo. Smentendo le anticipazioni che prevedevano la solita manovrina, il nuovo governo ha approvato una “manovrona” di 36 miliardi, giudicata a turno da alcuni “espansiva” , da altri “restrittiva” (nei tagli di spesa), da altri ancora “approssimativa” oppure “avventata”(nelle coperture). Sicuramente “incerta” per quel che sarà la risposta in termini di consumi e investimenti e per quel dirà l’Europa. Ma abbiamo presenti “la natura” dei provvedimenti varati dai precedenti governi (Amato, D’Alema, Prodi, Dini, Berlusconi, Monti, Letta)?Anche a incompetenti come noi non sfugge il rischio che l’attuale manovra nasconde. Proprio perché contiene incognite gli si deve però riconoscere una certa dose di coraggio. Dopo tre anni di recessione sarebbe stato assurdo inseguire ancora il “pareggio dei conti”. Certo, disaggregando le varie voci c’è chi non ci guadagna o non si ritrova coi margini che sperava; e chi non vede riconosciuto un sostegno indifferenziato della domanda globale attraverso una politica di incremento della spesa pubblica, finanziata in disavanzo. Una legge di stabilità che scommette sulla risposta del sistema economico a noi pare vada vista nel suo insieme, non decomponendo. Orbene, tutti sono padroni di servirsi della sfera di cristallo rappresentata dai propri interessi: le opposizioni, le banche, le Regioni, i Comuni, i fondi, l’edilizia, l’industria, la distribuzione, i servizi, i sindacati, le associazioni, i professionisti, gli investitori, i consumatori, gli speculatori, gli evasori, i padroni di casa, i detentori di capitali all’estero...Quando la ragione dorme è inevitabile che le chiacchere montino in cattedra.

© RIPRODUZIONE RISERVATA