Le banche, le imprese, la crisi

Le imprese sono il cuore del sistema. Lo sentiamo ripetere e lo ripetiamo noi stessi. Magari associandolo a “lavoro”, “capitale”, “credito”, ecc.. Una cosa è certa: sono loro, le imprese, a dare lavoro, a produrre il dinamismo economico di una società, a creare e sviluppare tecnologie. Una volta si diceva che quello che andava bene all’impresa andava bene al Paese. Non è stato sempre così, lo sappiamo. Ma ci confortava crederlo. Oggi non abbiamo cognizione se la regola valga ancora. Più spesso ciò che non è buono per l’impresa lo è per lo Stato e viceversa. Non è buono per l’impresa che lo Stato si prenda il 57 per cento in tasse. Non è bene per lo Stato che le “pecore nere” che evadono il fisco si prendano il 18% del Pil.Anche le banche sono impresa - vendono beni e servizi - ed hanno un ruolo centrale: possono intervenire a sostegno di altre imprese che producono. Ma lo fanno? Come lo fanno, in che misura, in quale direzione, con quali rischi? Il legame tra sistema bancario e imprese è assiomatico. Benché tra il 2000 e lo scoppio della crisi le due parti si siano lasciate tentare da strade diverse: le banche dai modelli di business che poco o nulla hanno a che vedere con la intermediazione creditizia, le imprese da operazioni rischiose o temerarie di finanza speculativa. La crisi e l’instabilità finanziaria coi loro effetti hanno ridimensionato i vagheggiamenti coltivati. Le difficoltà delle imprese si è ripercossa sulle banche, anche per le perdite originate dal mancato rimborso dei prestiti (le così dette sofferenze), e le imprese hanno sofferto l’esposizione agli shock dell’offerta del credito. Fino allo scoppio della crisi grandi, medie e piccole imprese potevano indebitarsi nonostante la scarsa redditività operativa. Bastava un buon rapporto in sede centrale o in agenzia. Dal 2008 le condizioni di offerta del credito sono diventate restrittive. Conseguenza delle nuove “regole” europee, certamente. Ma colpa anche dei bilanci all’italiana, sapientemente “velati” là dove dovrebbe vigere la massima trasparenza. Vincoli di Basilea e condizioni macroeconomiche hanno costretto a un atteggiamento più attento. Anche nella concessione del credito. Gli affidamenti si sono concentrati sulle imprese “meno rischiose”, con bilanci solidi (baso indebitamento ed elevata redditività) mentre altre, pur presentando un fatturato in crescita, tassi di accumulazione e capacità di esportare hanno dovuto fare i conti con la “qualità” delle relazioni bancarie. Quella che viviamo è la crisi più prolungata e penetrante degli ultimi decenni: due forti recessioni nell’arco di quattro anni. Gli scandali finanziari e bancari che l’hanno accompagnata, hanno procurato danni alla economia reale, nonostante in Italia l’esposizione delle banche ai titoli tossici sia limitata. Ma di “tossico” nei loro bilanci non ci son mica solo i titoli a dar fastidio. Faceva notare il Sole che per i crediti in sofferenza e l’esposizione sui bond nazionali le banche italiane non se la passano per niente bene. Un flusso di nuove sofferenze in rapporto ai prestiti ha portato il rapporto al valore più elevato dall’inizio della crisi (3,2 per cento). Il tasso di copertura è sceso pericolosamente: le banche accantonano meno fondi in proporzione all’ammontare di crediti dubbi. Ciò ha suggerito a Federico Fubini, in un servizio sul Corriere della Sera (4 ottobre), di azzardare una analisi diversa: le banche italiane non avranno titoli tossici ma hanno ammassato finanziamenti “deteriorati” (sofferenze, incagli, ristrutturati, in ritardo di pagamento), che ne “paralizzano l’attività” e paralizzano ’l’intera economia”. Come dire che se non è zuppa è pan bagnato. Contro la fiumana dei mercati anche le banche devono nuotare, imitando il nobile impegno del salmone.Ci sono “passaggi” però che non vanno ignorati: la European Banking Authority (Eba) chiese in piena estate, tramite Banca d’Italia, alle banche italiane di aumentare il capitale per 15 miliardi (di cui 7 per costituire un cuscinetto sui titoli di Stato). La risposta dei nostri banchieri fu inequivocabile: siccome un aumento di capitale non possiamo farlo, per arrivare ai parametri richiesti ci vedremo costretti a ridurre il denominatore, quindi gli impieghi. Assennatezza o insipienza? Valuti il lettore. Nei dati di Commissione e Bce si legge che la percentuale netta di piccole e medie imprese che hanno subito un peggioramento nelle condizioni di accesso al credito bancario è stato pari al 27 per cento, contro il 9 per cento delle imprese di maggiore dimensione. Altre rilevazioni ufficiali dicono che le Pmi italiane pagano circa quattro decimi di punto percentuale in più rispetto alla media dell’aria euro per contrarre un nuovo finanziamento bancario. L’evidenza prodotta è la recessione. C’è quindi un altro aspetto che avrebbe meritato già da tempo riflessione, il logoramento dei rapporti tra banche e imprese soprattutto sotto l’aspetto della qualità oltre che dei tassi. Le banche giustamente rivendichino l’impegno a sanare i propri bilanci, cominciando dall’ affinare la selezione del merito del credito delle controparti. Qualche dubbio resta sempre: con quali “criteri oggettivi”, con quali “robusti modelli di valutazione”? E’ lo stesso Governatore Visco a esigere “adeguatezza” nelle valutazioni aziendali.I problemi non si possono nascondere. Le esigenze di correttezza e trasparenza dei bilanci sono imperative. A cominciare dai “crediti dubbi”, cresciuti dalla crisi ad oggi del 164%. Un accumulo di sofferenze che è una vera e propria bomba. Se le banche portassero quei crediti dubbi o andati male al valore di mercato che perdite registrerebbero i loro bilanci?Fino a quando le banche “non riconosceranno e liquideranno la massa di prestiti andati a male”, come potrà il credito ripartire? La Banca d’Italia assicura “attenzione”. Recenti fatti che coinvolgono le Authority confermano che la vigilanza da noi è sempre a posteriori e la protezione del risparmio una chimera. I furbetti non ci sono solo a Wall Street.Al di la delle riflessioni suggerite da una recente indagine dell’istituto di vigilanza, nei rapporti tra banche e imprese contano – eccome contano! - gli aspetti “qualitativi”. Dietro ad essi si possono nascondere altri fattori di scarsa trasparenza e deterioramento. Non certamente la fine del tunnel.

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