La timidezza può essere un valore

Durante gli studi superiori ho avuto modo di apprezzare un insegnante non solo per la sua straordinaria professionalità, ma anche per quello che sembrava essere uno strano difetto male interpretato da noi studenti in un contesto classe dove emergevano esuberanza, sfacciataggine, vivacità e, diciamo pure la verità, voglia di prendere in giro. Il ricordo va al docente di latino (per la cronaca il fu prof. Quatraro) che ogni qualvolta qualcuno tentava di avvicinarsi per chiedere delucidazioni sulla lezione appena conclusa, aveva l’abitudine di indietreggiare lentamente, a piccoli passi, dall’interlocutore che al contrario continuava ad avanzare per meglio ascoltare. Dava a tutti l’impressione che vivesse male l’approccio con noi studenti, defilandosi garbatamente, sia pur con prudenza e discrezione, per fuggire dall’imbarazzate relazione. Capitava, non di rado, anche di vederlo rasentare il muro dell’aula con l’unica preoccupazione che traspariva dai suoi occhi visibilmente preoccupati di guadagnare l’uscita, vieppiù preoccupato di non destare sospetti per questo suo intento. Il problema? La timidezza. Eravamo consapevoli di essere di fronte a un professore eccessivamente timido. Un comportamento a dir poco problematico che trasforma il rapporto con gli altri in soffocante imbarazzo, che tocca non solo chi lo vive, ma anche i contesti di riferimento (studenti, colleghi, ambito di lavoro), con ripercussioni sia sulle relazioni amicali o professionali, sia sulle opinioni più comuni intorno ai timidi. Oggi come ieri molti insegnanti sono chiamati a fare i conti con diversi alunni, grandi o piccoli non fa differenza, che vivono la timidezza come un forte disagio esistenziale reso ancor più pesante dai nuovi valori sociali che apprezzano gli sfrontati, che valutano positivamente gli estroversi, che spalancano le porte agli invadenti. Oggi pare che non ci sia più spazio alla riservatezza, come non c’è più disponibilità a recepire con la dovuta sensibilità il rossore del viso causato da una paurosa quanto improvvisa esposizione comunicativa, o anche la voce divenuta tremula per una situazione vissuta come compromettente. Ed ecco allora che un atteggiamento silenzioso preoccupa più di uno brillante; l’interrogazione condotta tra un imbarazzante rossore e un’intima tensione viene ritenuta priva di personalità poiché esposta a parole pasticciate, confuse e turbate; la conversazione richiesta da una coinvolgente situazione, viene tradita da un tono di voce che non appartiene al gruppo o al contesto circostante. Di qui la decisione di certi ragazzi di non alzare mai la mano quale segno di disponibilità a dare una risposta sia pure sollecitata dall’insegnante o a non dichiararsi disponibili per l’interrogazione. Senza parlare di quella strisciante sofferenza che talvolta prende i ragazzi timidi costretti dalle circostanze a recarsi comunque alla lavagna e mettersi così in evidenza anche se controvoglia. Che sofferenza essere lì e sentirsi soli nell’affrontare le attenzioni dei compagni di classe nonché gli sguardi dell’insegnante pronto a sottolineare dubbi e insicurezze per trasformarli in dubbi voti. Tutto, per un ragazzo timido, si complica. Qualcuno addirittura vorrebbe sprofondare pur di fuggire dall’imbarazzante contesto. Eppure il ragazzo timido dovrebbe porre ai docenti pressanti interrogativi, dovrebbe richiedere un atteggiamento univoco in grado di alimentare quella particolare sensibilità di chi dovrebbe vedere il disagio relazionale come un’occasione da valorizzare. I tanti alunni che non riescono ad essere come vorrebbero per il semplice motivo che vivono con eccessiva preoccupazione la propria relazione, i propri rapporti personali, devono forse, per questo, sentirsi in colpa? Niente affatto. Se mai in colpa dovrebbero sentirsi chi di questa sensibilità non riesce a farne un valore, piuttosto che vederla come un ostacolo alla sicurezza di un percorso, alla maturazione di una personalità. Uno studente timido è sempre un problema per un insegnante. La difficoltà maggiore deriva dal fatto che la timidezza non sempre viene recepita come un valore. Anzi. Il più delle volte diventa una colpa, un freno se non un’incomprensione che non consente, a chi ne viene investito, di esprimersi al meglio. I segnali sono molto evidenti. Paura di parlare a voce alta, paura di sentirsi diversi, paura di fare brutte figure, abbassano l’autostima fino a impedire di mostrare determinate qualità che ognuno possiede. Tutto sta nel riconoscerle. A questo disagio proprio di chi vede nella timidezza un freno alla crescita personale, si aggiunge poi il disagio che vivono i genitori la cui preoccupazione prima è quella di mettere al corrente l’insegnante, quasi a cercare un’intesa che consenta la ricerca di una strategia in grado di garantire un diverso modo di procedere nei confronti del figlio intrappolato dalla timidezza. Non va dimenticato che uno studente timido cerca comprensione, è alla ricerca di un suo ruolo nel gruppo classe, desidera intimamente affidarsi a esperienze didattiche e sociali significative, attende occasioni comunicative che rafforzino i comportamenti attivi. E’ un modo come un altro per combatte il rifiuto a comunicare. Sempre per cercare di contribuire a meglio capire le ragioni di fondo che stanno alla base della motivazione che deve animare chiunque sia disponibile ad affrontare il problema timidezza senza alcuna riserva, sentite cosa scrive Diogene Laerzio nel suo libro “Vite dei filosofi” a proposito di Cratete di Tebe, filosofo alquanto timido e riservato: «Il cinico Cratete ogni notte scendeva per strada e andava a insultare le etere nei quadrivi di Atene; faceva questo per essere più in forma la mattina seguente, quando doveva affrontare gli avversari nell’agorà». Ora io non so se Cratete con un simile nottambulo esercizio avesse guadagnato in fiducia e autostima, sappiamo però, dalla stessa fonte, che il nostro cinico filosofo si adoperò per aiutare un giovanotto, a lui affidato, di nome Metrocle affinché superasse quello che era stato il suo problema. Il ragazzo trovò giovamento dall’aiuto ricevuto, ma l’espediente utilizzato da Cratete è meglio lasciarlo scoprire a chi ha voglia di leggere il libro di Diogene.

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