La strada pericolosa delle periferie

Non impariamo mai. Due episodi di grave disagio e disordine: a Roma e a Milano. Identici gli scenari: i centri di accoglienza, le case occupate abusivamente, l’abbandono delle istituzioni, il diffuso malessere tra i cittadini. Stessi i protagonisti: gli abitanti esasperati e i gruppi di emarginati. Stessi i modelli di riferimento e comportamentali: Le Pen e i politici in cerca di riposizionamento e consenso. Stessi i capri espiatori: oggi il migrante, ieri il rom e lo zingaro, l’altrieri l’albanese, l’altrieri ancora il cinese, anni fa il “terrone”. Senza variazione di argomenti e discorsi. Che il nostro sia un Paese che non ama confrontarsi con i dati di fatto e non abbia nessuna voglia di distinguere all’interno delle politiche quelle che producono, a lungo andare, risultati negativi sull’esistenza degli individui, è cosa ben nota. I fatti dolorosi di Milano e Roma, non sono occasionali. Si contestualizzano e si spiegano con la situazione di prolungato abbandono e di trascuratezza istituzionale. Il problema delle periferie urbane, il disastro idrogeologico, l’ignobile stato di degrado degli edifici scolastici, il distacco totale della politica dall’emergenza casa, il collasso delle discariche, l’abusivismo edilizio son li tutti i giorni a dimostrarlo, insieme a tanti altri che richiederebbero un giornale intero volendo citarli tutti. Sul banco degli accusati principali non c’è solo lo Stato, ci sono anche gli enti territoriali (la Regione, la Provincia, i Consorzi) e quelli periferici (i Comuni), che sono comunque ancora lo Stato. Sulle condizioni di abbandono delle periferie si discute appassionatamente da anni. Se ne parla, ma quanto si lavora? La crisi delle periferie urbane è l’immagine dello sradicamento, della perdita di identità, che è anche solitudine e spesso si traduce in violenza d’ogni tipo. Per affrontare le complesse problematiche che insieme si legano, hanno messo del loro sociologi, urbanisti, storici, economisti, grandi architetti, statistici. Nell’indifferenza decisionale di politici e amministratori, nel totale disinteresse della classe dirigente della società civile. Oggi, con la crisi economica e i fenomeni migratori che ingigantiscono, non c’è da sorprendersi se il problema delle periferie balza a galla con tutta la sua drammaticità e complessità. Dietro agli episodi di violenza di questi giorni c’è il dramma delle periferie abbandonate, che spesso nasconde drammi di vita, quando si tratta di gruppi rigettati ed emarginati, di culture considerate subculture, di disperati che si sentono respinti, estranei, minacciati da altri gruppi di disperati che guardano alla ricchezza che li circonda e considerano indecente tutto ciò che ha un diverso colore della pelle. Il mondo dell’ufficialità ha sempre considerato le periferie un mondo subalterno, extraterritoriale, un combustibile inerte da non doversi preoccupare del loro destino, di quella umanità emarginata e marginale – socialmente, politicamente, economicamente – lasciata a se stessa. Si parla e si scrive di decadenza industriale, di quaternario e di nuovi bisogni immateriali. Delle periferie si parla se ci sono fatti di cronaca delittuosi, o problemi gravi che gli emarginati pongono alle comunità e che tanti apprendisti stregoni cercano di sfruttare soffiando sul fuoco. Al di la delle circostanze pittoresche o compassionevoli è la dimensione esistenziale che evidenzia una condizione insidiosa di tipo essenzialmente psicologico. Ma è anche l’orientamento riduttivistico e l’interpretazione conservatrice che rende esplosivo il disagio delle periferie. Buone intenzioni a parte, spesso si trovano estremi di sadismo nella incomprensione che tanta gente mostra per certi problemi e fenomeni. La povertà e il degrado più gravi son quelle che non si vedono, la rabbia può anche essere opera di provocazioni di ambienti politici che usano raccogliere consenso dallo scontro tra poveri. Dalla guerra tra coloro che non hanno nulla e coloro che pur non avendo nulla, o avendo poco, cercano di salvare le apparenze e si illudono di recuperare una rispettabilità (che non vuol dire un tenore di vita) dallo scontro con frange emarginate e impotenti.Sembra di tornare alla fine dell’Ottocento quando i poveri consideravano i più poveri come feccia, li accusavano di diffondere malattie, insicurezza e di sottrarre lavoro a chi non l’aveva o l’aveva perduto. Assurdamente, si assiste oggi a poveri che si sentono una nobiltà perché trent’anni fa avevano ottenuto una casa dal Comune lasciata poi senza manutenzione e oggi si sentono minacciati dai rifugiati giunti da dove si combatte sul serio: Libia, Siria, Egitto. Incolpati, a volte anche a ragione, di provocazioni, furti, immondizia, zuffe, violenze d’ogni tipo e di togliere decoro e tranquillità all’ambiente. Oltre naturalmente a costare. Sennonché dietro a questa guerra tra poveri si affaccia (a volte) qualcos’altro. I nuovi venuti attirano troppa polizia. La cosa non può far piacere a chi vive d’espedienti. Con precipitosa decisione a Roma il Comune ha deciso lo sgombero del Centro di accoglienza e, a Milano, l’evacuazione di abitazioni occupate abusivamente. Facili a capirsi le ragioni. Ma il rischio è l’effetto domino. Nei quartieri di periferia regna un profondo senso di insicurezza che alimenta il risentimento. Aleggia un misto di rabbia e rivalsa, conseguenza di un torto o di una frustrazione subita, sia essa reale o immaginaria. Può bastare una scintilla per far scoppiare l’ incendio. E basta ancor meno perché qualcuno vi organizzi sopra la speculazione politica.

© RIPRODUZIONE RISERVATA