La scuola tra divieti e precetti

Una recente decisione presa da un mio illustre collega inglese di una scuola londinese, mi offre lo spunto per riflettere su una spinosa questione che vede sempre più la scuola confrontarsi con durezza con i genitori per via di certe discutibili abitudini che, senza colpo ferire, si trasformano in tollerati atteggiamenti. Jonhatan Oliver, questo il nome del mio collega inglese, ha recentemente deciso che nella sua scuola le ragazze non potranno più entrare indossando gonna o minigonna, unico indumento ammesso, senza obiezione alcuna, è il pantalone. Non c’è che dire, questo preside ha avuto un bel coraggio a dare questa rigida disposizione, vieppiù se consideriamo che ciò succede nella patria di Mary Quant anticonformista e antesignana in fatto di minigonne. C’è da dire, però, che simili iniziative si registrano un po’ dappertutto, anche da noi. Ciò che invece mi porta a riflettere, è la cultura impositiva a cui ricorrono tanti miei colleghi per cercare di portare ragazzi e ragazze a più miti consigli. Impresa ardua dal momento che bisogna comunque fare i conti anche con i genitori, sempre pronti a confrontarsi con i presidi, riducendo un divieto educativo a un discutibile forzoso precetto. Cerchiamo di capire meglio ciò che sta avvenendo nelle nostre scuole. Sappiamo che ogni scuola si dota di regolamenti interni per dare più disciplina a una condotta messa, talvolta, a dura prova dai ragazzi. Ma sappiamo anche che per tradizione regole e divieti vengono fatti per essere trasgrediti. I trasgressori non sono ribelli, ma per i coetanei sono eroi poiché capaci di dimostrare coraggio nell’affrontare la sfida che li vede comunque perdenti agli occhi di chi è poi chiamato ad educare al rispetto delle regole. E in questo i ragazzi sono dei maestri pronti a immolarsi per passare alla memoria storica dei propri compagni di classe. Nascono così dei leader in negativo, ma degni di un certo rispetto in quanto a coraggio. Cosicché se in un istituto si sottolinea il divieto di usare l’iPod in classe, ci sono tanti pronti a sfidare tale divieto pur di dimostrare che, con qualche accorgimento e con fare furbesco, è possibile messaggiare, chattare, sfidando gli insegnanti. E ancora. Quanti presidi raccomandano i ragazzi di venire a scuola, indossando un abbigliamento consono all’ambiente. «Vox clamantis in deserto».

Eccoti puntualmente presentarsi nelle nostre aule ragazzi con jeans strappati, e molte ragazze vestite in modo alquanto discutibile con mini top, magliette dalle scollature generose, gonne corte, push up (così oggi chiamano un certo tipo di reggiseno) di nuova generazione, lasciando libero sfogo alla fantasia di giovani coscienze stritolate da smalizianti pulsazioni. In tutto questo qual è il ruolo dei genitori? La difesa a tutto campo dei propri pargoli per far fronte a una disfatta educativa.

L’osservazione più frequente? «Libero look, in libera scuola» (Cavour docet). Viene sottolineato che la scuola non può vietare ciò che non è messo in discussione da un comune senso del pensiero. Con questo si aggiunge confusione a confusione. Emerge, per conto mio, l’incapacità di riconoscere la realtà dalla menzogna tipico di un atteggiamento disfattista post-moderno. Per molti genitori esiste un eccesso di divieti che va oltre una certa morale sociale che tutto copre e che tutto difende. Chi si mette contro questa cultura o è un bacchettone o è uno fuori epoca. Una domanda ora è d’obbligo. Come ritrovare il vero senso del divieto a scuola? Per molte mamme la scuola non deve vietare, ma deve essenzialmente educare, ergo non può continuare a dire sempre no, a farsi terzo incomodo tra figli e genitori.

La scuola non può continuare a parlare di divieto di cellulari in un’epoca in cui il telefonino è diventato l’amico, il bodyguard. Non può continuare a parlare di divieto di indossare gonne corte, magliette generose, pantaloni strappati semplicemente perché tutto questo fa parte di una certa cultura sociale. Insomma basta con la scuola dei divieti! Anzi. L’assurdo è che più si tenta di vietare e più dura si fa la sfida. Per i genitori la scuola deve rientrare nei ranghi. Non deve più pensare a vietare, ma deve pensare a formare e istruire. Ma allora hanno torto i miei colleghi? Ha torto chi insiste con certi regolamenti che hanno come obiettivo quello di mettere dei paletti in un’età in cui difficilmente si riconoscono i necessari condizionamenti?

A mio modesto parere, invece, è bene insistere con i divieti, perché sono proprio i divieti che aiutano a crescere. Al bando, dunque, nelle scuole rossetti, rimmel e ombretti esagerati; al bando gonne corte, pantaloni strappati e t-shirt extra large adatte a scoprire ciò che è da coprire; al bando atteggiamenti di sfida, di provocazioni e istigazioni; al bando ogni stile di vita che alimenta una cultura permissiva attenta più a inseguire desideri che ad affrontare gli insuccessi.

Che bello sarebbe apprezzare la scuola dove i divieti vengono presi nel loro giusto significato. Tra docenti e genitori non si dovrebbe mai parlare di scontro, ma diversità di impostazione, di diversità di lettura della realtà. «C’è per me, una realtà mia, quella che io mi dò, e una realtà vostra per voi, quella che voi vi date, le quali non saranno mai le stesse né per voi, né per me». Luigi Pirandello in «Uno, nessuno e centomila».

Nella società di oggi in cui il virtuale si identifica in modo rischioso con il reale, diventa determinante, ai fini del successo educativo, rendere empatica la relazione tra protagonisti che dovrebbero essere più che mai consapevoli di voler andare al di là del virtuale. Si sa che una diversa lettura degli eventi, una diversa visione del fascino della moda, porta spesso tanti genitori ad affidarsi più al silenzio che alla consapevolezza. Eppure esistono altre soluzioni, altre scelte dinanzi alle quali ogni bambino, ogni ragazzo o giovane può provare meraviglia. Ma questa visione è faticosa e allora meglio affidarsi al silenzio più redditizio dell’impegno. Scelta sbagliata che prima o dopo si scontra con le scelte della scuola e dei suoi regolamenti.

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