La nostra scuola è proprio messa male

La notizia di questi ultimi giorni è di quelle che fanno riflettere e parecchio soprattutto chi ha a cuore l’educazione. Dal rapporto “Educazione e istruzione 2014” della Commissione Europea pubblicato la scorsa settimana, l’Italia gode di due tristi primati. Dal primo veniamo a sapere che siamo agli ultimi posti in fatto di risorse economiche destinate a processi educativi riferiti a tutti i livelli scolastici; dal secondo che siamo ai primi posti in fatto di abbandoni o di mancato completamento degli studi da parte dei ragazzi (sono 163 mila quelli che hanno lasciato gli studi nell’ultimo anno). Ora va bene che «gli ultimi saranno i primi e i primi saranno gli ultimi» come i lavoratori della vigna del Signore, ma è pur vero che di qualche miracolo la scuola italiana ha proprio bisogno. In pratica si investe poco nella scuola mentresono tantissimi i ragazzi che interrompono gli studi. I dati in possesso della Commissione Europea parlano di un impegno finanziario che non va oltre il 4 per cento del nostro prodotto interno lordo. Sembra tanto se pensiamo ai tempi che stiamo attraversando, in realtà è una percentuale minima se la paragoniamo ai paesi scandinavi, che pure non navigano nell’oro, dove si viaggia intorno al 7 per cento. E sappiamo benissimo come funzionano le scuole finlandesi, svedesi o danesi. In quanto a noi siamo messi proprio male! Eppure è già da qualche tempo che vari organi di stampa continuano a lanciare messaggi preoccupanti in tema di istruzione ed educazione. Innanzitutto è bene ricordare che istruzione ed educazione sono due concetti molto diversi. Un conto è, infatti, occuparsi dei contenuti che vengono propinati agli studenti, conoscere le cause che determinano le condizioni della conoscenza, altro è l’aspetto umano che accompagna la persona impegnata nell’affrontare i contenuti, sia essa allievo o docente ciascuno visto nel proprio ruolo. E mi spiego. Quando a un allievo, ad esempio, viene insegnato come far fruttare al meglio le risorse economiche, se questa azione conoscitiva non viene accompagnata da un atteggiamento che contempli l’attenzione all’aspetto umano centrato sulla persona, avrò fatto con molta probabilità molto sul piano cognitivo, ma pochissimo sul piano educativo. Il risultato potrà essere che avrò ben preparato un giovane a inserirsi nel mondo del lavoro, ma dal punto di vista educativo gli avrò insegnato ad essere piuttosto scaltro in una società fatta di furbi e di approfittatori. E’ come dire che non è stato dato spazio alla crescita della propria sensibilità. Quindi l’allievo di oggi che sarà forse un ottimo professionista di domani, professionalmente preparato al punto da saper ben organizzare il lavoro, che sarà in grado di gestire al meglio le dinamiche speculative di capitalizzazione e di guadagno, ma che peccherà di sensibilizzazione verso il prossimo, ebbene questo abile professionista non terrà conto dell’aspetto integrale della persona, non saprà indagare nel profondo del suo prossimo, non saprà trasmettere amore per se stesso e per gli altri. In ultima analisi questa persona adulta non capirà mai cosa vuol dire educare. E’ l’errore che commettono spesso molti insegnanti. Si preoccupano tanto di istruire, ma meno di educare; si preoccupano di verificare il successo dei processi cognitivi, di verificare la padronanza dei contenuti, mentre trascurano di aiutare il ragazzo a maturare come personalità per meglio gestire in piena autonomia le conoscenze acquisite. Queste preoccupazioni portano l’insegnante ad esprimere la propria professionalità mediante un eccessivo rigorismo valutativo tanto da trovare nei voti bassi (due, tre, quattro) la risposta all’immancabile quanto generico “scarso impegno nello studio”, senza preoccuparsi di far crescere negli allievi uno spirito di autoconsapevolezza. Alla fine a preoccupare l’insegnante sarà probabilmente più come trasmettere al meglio il proprio livello di professionalità, che non la capacità di educare l’allievo alla riscoperta della propria sensibilità per gestire al meglio le conoscenze acquisite. Ed è proprio quello che sta accadendo in questi nostri tempi. Quante volte ci capita di incontrare per strada allievi già ben cresciuti e pasciuti, uomini e donne fatti, vissuti, formati nel sacrificio professionale e nella responsabilità coniugale, con prole al seguito e scoprire che da studenti erano delle mezze cartucce nello studio e problematici nei rapporti con gli altri? Eppure sono gli stessi che poi hanno avuto modo di affermarsi nel campo lavorativo non solo con consapevole professionalità, ma anche grazie a un processo di autoconsapevolezza e di sensibilità messo in campo nei rapporti col prossimo tanto da meritare stima e riconosciuta autorevolezza. Allora delle due l’una ha prevalso sull’altra. Ha prevalso la persona educata, sulla persona istruita; la persona capace di essere protagonista della propria esistenza in grado di esercitare scelte responsabili, sulla persona inserita in competizione conflittuale con i suoi simili o peggio ancora sottoposta alla volontà dominatrice di un adulto pseudo educatore. Educare rimane, quindi, un’arte nobile e difficile, ma ricca di potenzialità morali e civiche. Un concetto che non va mai lasciato ai margini programmatici di un qualsiasi governo che vuole puntare su una futura generazione in grado di contribuire alla crescita del proprio Paese. Preoccupa non poco quel 4 per cento del nostro PIL dedicato all’istruzione e all’educazione dei nostri ragazzi. Fa impressione vedere la nostra modesta percentuale confrontata a quella dei paesi nordici dove evidentemente sono più convinti che la scuola può veramente dare un determinante contributo non solo mediante un forte impulso formativo che può arrivare dalla didattica, ma anche e soprattutto un grande aiuto alla promozione umana, alla creatività, alla solidarietà, alla presa di coscienza dei grandi temi della nostra esistenza. Se poi a tutto questo aggiungiamo la povertà educativa di tanti genitori catturati come sono dalle innumerevoli contraddizioni del nostro tempo tanto da rendere il rapporto con i figli confuso e scialbo, allora il quadro si fa veramente drammatico. Giusto quindi parlare più di allarme educativo che di emergenza educativa. Ma questo è un altro discorso che merita una riflessione più approfondita.

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